Negli ultimi mesi gli appelli sulle aree interne suonano tanto urgenti quanto trascurati. Le
“comunità lontane”, segnate da spopolamento, fragilità sociale e carenze infrastrutturali, certo non
possono essere condannate alla rassegnazione. Con una “Lettera aperta al Governo e al
Parlamento”, i Vescovi riuniti a Benevento sollecitano una narrazione diversa, chiedono politiche
coraggiose verso il recupero del senso di comunità, delle opportunità e della “resistenza virtuosa”.
In questo solco da tempo si inserisce “Rigenera”, un progetto che mira non solo a bloccare il
consumo di suolo, ma anche a ripristinare il territorio con interventi ambientali, sociali e culturali.
Le istanze, in unione tra loro, mettono in fila le mancanze della politica e la volontà di assumere
fino in fondo la responsabilità delle scelte. Questo è il punto, e noi che nei territori ci siamo e
facciamo politica, siamo i primi a dover rendere conto.
L’appello dei vescovi, così come l’idea di “rigenerare” rappresenta un richiamo per l’intero
arcipelago di esperienze: partiti, associazioni, collettivi, intellettuali, realtà di cittadinanza attiva.
Nella sostanza, tutti coloro che faticano a riconoscersi in un’unica direzione, ma restano custodi di
una domanda di cambiamento.
La nostra responsabilità collettiva trova tempo e azione nei luoghi dove i rapporti di forza
alimentano disuguaglianze, in particolare nelle aree interne. Rispetto ai temi, quest’ultime non
vanno isolate nel rapporto con la “costa” perché non basta più rappresentare la sola questione
periferica: tocca richiamare la Costituzione nella parte che riconosce l’uguaglianza dei cittadini e
l’universalità dei diritti: salute, istruzione, mobilità, accesso ai servizi essenziali. Elementi che
proprio nelle aree del margine hanno accumulato il ritardo più grave, nonostante fondi e programmi.
La quotidianità ancora costringe chi ha deciso di abitarle a sacrifici che non possono essere
considerati “normali”. Prendo il caso del Fortore, tra le aree interne della Campania estrema. Nel
Fortore la “strategia delle aree interne” è diventata un’illusione burocratica affidata – non si capisce
per quale motivo – alla Comunità montana del Fortore come ente: l’area combacia perfettamente
con l’aggregazione dei comuni che ne fanno parte. Le comunità montane, però, nascono per altri
compiti. Addirittura, nel Fortore, per definire l’area Snai, è dovuto intervenire il Vescovo di
Benevento accompagnando “fisicamente” i sindaci a Roma. I comuni aggregati “per mano di Dio”
poi però hanno deliberato pari pari un piano scritto e “gestito” dalla Comunità montana del Fortore,
che ha prodotto poco più di 4 milioni per asfaltare strade. Attività ordinarie, non strategiche. Non vi
è certo una visione politica di area, non vi è certo un’inversione di tendenza sui temi della
Costituzione.
C’è un altro punto decisivo: l’acqua. Nei territori “lontani” come i nostri, non è soltanto un bene
comune da proteggere: è la condizione stessa di ogni prospettiva di giustizia sociale ed economica.
La sua gestione non può essere abbandonata alle logiche speculative, ma deve restare nelle mani
delle comunità, come garanzia di equità e di sviluppo. Lo stesso vale per l’idea di una rinnovata
ruralità, che non può essere un nostalgico ritorno al passato, ma la possibilità di immaginare un
futuro diverso, fondato sul lavoro della terra e sulla capacità di trasformarlo in reddito, occupazione
e innovazione. La cooperazione può fare la differenza: esistono esperienze agricole e sociali che
hanno dato risultati concreti, dove si intravede un modello di sviluppo che tiene insieme comunità e
nuove generazioni.
E infine la montagna, troppo spesso evocata come cartolina ma mai riconosciuta per quello che è:
un pilastro ambientale e sociale che chiede politiche di manutenzione, di cura dei boschi e dei
pascoli, di sostegno alle attività tradizionali e innovative. La montagna è presidio di vita e di
sicurezza per tutti, non solo per chi ci abita. Abbandonarla significa consegnarsi al dissesto
idrogeologico, allo spopolamento, alla perdita di identità. Anche qui la pastorale dei vescovi ci
ricorda che la sfida non è isolarsi, ma fare rete, associare servizi e comunità, ricostruire un tessuto di
relazioni.
In questi temi c’è la direzione. Costruire partecipazione e confronto, generare un “ripopolamento
delle idee” ancor prima di quello demografico, seguendo così l’appello limpido che ci viene rivolto.
Un rinnovato pensiero politico può farsi laboratorio di idee se non si limita a elencare priorità, ma
prova a mettere in circolo linguaggi nuovi, capaci di intrecciare la questione sociale con quella
territoriale, la sostenibilità con l’abitabilità, l’innovazione con la memoria.
Una strada nuova per la politica è possibile anche in Campania. Si gioca dentro il campo largo dove la priorità è non cedere a quelle che sembrano ambizioni personali: da un lato De Luca che continua a esercitare il suo peso, dall’altro l’area che guarda a Fico. In mezzo c’è il PD, ridotto a subire le ripartizioni interne invece di governarle, incapace di trasformare il conflitto in progetto. Ed è in questo campo largo che occorre essere, senza arretrare sui temi che più interessano l’abitabilità dei luoghi, di ogni luogo e di
un altro possibile spazio politico.
Rocco Cirocco


Vorrei condividere una riflessione sullo stato di agitazione degli agricoltori italiani riguardo la caduta del prezzo del grano che si ricongiunge idealmente a mio avviso a quella di Rocco Cirocco sull’esigenza di rigenerazione e di ripopolamento delle aree interne.
Gli AGRICOLTORI ITALIANI sono in piazza a protestare contro il calo del prezzo del grano sul mercato interno, calo causato dalle massicce e crescenti importazioni di grano dall’estero (Canada, Russia, Turchia) a prezzi sempre più bassi resi possibili 1) da pratiche agricole giustamente non consentite nel nostro Paese a tutela della salute pubblica (ma di cui la legge italiana ed europea consente l’aggiramento riguardo il prodotto che arriva dall’estero), 2) dal minor costo (leggi “sfruttamento”) della manodopera rispetto al costo che grava sulle nostre imprese. Il risultato di tutto questo è un vantaggio per l’industria di trasformazione del settore e un pesante HANDICAP SUGLI AGRICOLTORI ITALIANI il cui margine di profitto, già molto basso, si è ridotto ulteriormente. Urge una seria discussione su come mettere riparo a questa situazione presente certo non da oggi ma mai affrontata con una visione ed una programmazione adeguate. Per noi consumatori italiani è certamente preferibile consumare del pane e della pasta realizzati con grani di qualità, prodotti con la massima attenzione alla salute e alla sicurezza alimentare, ad un PREZZO GIUSTO, DOVE “GIUSTO” SIGNIFICA ACCESSIBILE A TUTTI E CONTEMPORANEAMENTE TALE DA GARANTIRE UN ADEGUATO MARGINE ALL’AGRICOLTORE E NON SOLTANTO ALL’INDUSTRIA DI TRASFORMAZIONE, ALLE IMPRESE DI TRASPORTO E ALLA GRANDE DISTRIBUZIONE ORGANIZZATA. Credo che questo possa avvenire in primo luogo aumentando significativamente la produzione nostrana di grano di qualità (non mancano esempi “eccellenti” di piccole imprese che operano nelle aree interne del Paese con grande fatica sia per la difficoltà di reperire terreni sia per la difficoltà anche maggiore di reperire manodopera adeguatamente formata). La proposta di legge RIGENERA CAMPANIA, che attende ancora di essere discussa in Consiglio regionale, la proposta in itinere annunciata da Slow Food Campania su un REDDITO DI CONTADINANZA, così come l’idea di un Piano di Sviluppo Rurale e di un REDDITO DI PERMANENZA elaborata da un gruppo di agricoltori custodi del Cilento, vanno tutte in questa direzione ma necessitano di essere inserite in un PROGRAMMA ORGANICO DI PIANIFICAZIONE REGIONALE DELLE PRODUZIONI AGROALIMENTARI che comprenda ai primi posti gli interventi atti a favorire la rigenerazione e il ripopolamento delle aree interne soprattutto attraverso politiche di rilancio dell’agricoltura e di sostegno alle piccole e medie imprese che praticano agricoltura biologica e rigenerativa.