Pubblichiamo di seguito un contributo importante che Alfonso Maurizio Iacono ci ha inviato e dove ha modo di approfondire altri decisivi aspetti del confronto teorico e politico sulla sinistra con dopo il suo articolo dell’8 agosto su il Manifesto in memoria di Mario Tronti ( https://ilmanifesto.it/un-comunista-eccentrico-che-sapeva-guardare-lontano ), e la riflessione di Franco Astengo che a proposito di quell’articolo avevamo ospitato il 9 agosto . ( https://www.infinitimondi.eu/2023/08/09/ancora-su-mario-tronti-da-due-angolature-diverse-la-riflessione-di-franco-astengo-e-quella-di-antonio-napoli/ ).

DOPO LA SINISTRA, QUALE SINISTRA?

LA DEMOCRAZIA COME POTERE E COME CONFLITTO

di Alfonso Maurizio Iacono

Franco Astengo, riprendendo il mio ricordo di Mario Tronti pubblicato l’8 agosto da Il Manifesto, pone giustamente l’accento sulla questione della democrazia in quanto potere. Aggiungerei: la democrazia in quanto potere e in quanto conflitto. Un tema sottolineato da Tronti, ma anche, per esempio, sia pure in una chiave diversa, da Lucio Magri. Il tempo, come si dice, è galantuomo e ci permette di vedere le cose con maggiore distacco e forse serenità e dunque di accostare teorie che allora parevano piuttosto distanti. La democrazia come potere era alla base delle pratiche di contropotere che in Italia (e non solo) si svilupparono nel ’68 e nel ’69 nel movimento studentesco e in quello operaio. In particolare la strategia consiliare portata avanti dai sindacati e in prima istanza dei metalmeccanici fu la forma più avanzata di rapporto tra democrazia, potere e conflitto. Mutata la base tecnica di produzione e dunque le condizioni della divisione del lavoro, la dinamica tra democrazia e potere è a sua volta cambiata. Sono saltate le basi dell’antagonismo mentre gli spazi del contropotere si sono dissolti nello smontaggio dei processi produttivi. Il sistema capitalistico nella sua fase (attuale) neoliberista è riuscito a smantellare non solo lo stato sociale ma anche le forme intermedie di democrazia che erano caratterizzate dai partiti a loro volta organizzati su tempi lunghi attraverso forme intermedie di partecipazione e dai sindacati dei consigli.

Inutile girarci intorno, dopo questo smantellamento, la sinistra è finita. O almeno è finita la sinistra che noi conosciamo e i cui rottami li stiamo vedendo nell’abbraccio che gran parte di essa ha inteso offrire al neoliberismo, alla privatizzazione selvaggia, alla crescita delle diseguaglianze. Abbracciato il neoliberismo si è perso il futuro e la frase della Sig.ra Tatcher, “there is no alternative”, è diventata la norma implicita anche per molte di quelle forze politiche e sociali che in passato avevano lottato per il cambiamento.

Ma se non c’è alternativa, qual è il senso della sinistra?

La condizione attuale della democrazia è oggi fondamentalmente caratterizzata da tre fattori:

  1. L’apatia politica
  2. L’ignoranza pubblica
  3. Il basso livello di partecipazione

Questi tre fattori, che segnano un degrado delle forme di convivenza sociale e civile, erano stati previsti e auspicati già negli anni ’50 da quei sociologi che puntavano a una teoria élitista della democrazia all’interno della società di massa.

Oggi l’apatia politica, l’ignoranza pubblica e il basso livello di partecipazione sono diventati segni e sintomi caratteristici delle democrazie occidentali dominate da un sistema economico capitalistico che ha aumentato il divario tra ricchezza e povertà e alzato il livello delle diseguaglianze sociali. Un numero sempre più ristretto di persone possiede la maggior parte delle ricchezze, mentre l’allargarsi delle sacche di povertà e di impoverimento delle classi medie e operaie spinge verso una perdita del senso della cittadinanza all’interno di una cultura dove domina l’ideologia dell’individualismo egoistico e dove la retorica della competizione tende a mortificare l’importanza della cooperazione. L’individualismo tende a dissolvere la sensibilità verso ciò che è comune, spostando il senso di appartenenza all’interno di gruppi sempre più corporativi e concorrenziali fra loro, la cui identità collettiva si forma regressivamente sulla base dell’ostilità nei confronti dell’altro. Dal bullismo a razzismo, la caratteristica è un senso collettivo più vicino all’idea di un branco che a quella di una comunità capace di convivere con altre comunità. Paradossalmente, all’individualismo si accompagna una sorta di collettivismo di mercato, un trionfo dell’omologazione e del conformismo. Basta aggirarsi per una qualsiasi città occidentale, grande o piccola che sia e si vede come le merci in vetrina sono le stesse, quelle offerte dalle multinazionali.

Inoltre pensare che i social abbiamo aumentato il tasso di partecipazione politica è un vero e proprio autoinganno. Semmai hanno accorciato il tempo della riflessione collettiva fin quasi ad annullarlo e ridotto la comunicazione politica a battuta e a invettiva. Ma il problema non è dei social bensì del sistema politico attuale. Il problema riguarda in specifico il ruolo dei social nella politica o, più precisamente, la loro funzione sostitutiva, non aggiuntiva, rispetto alla partecipazione politica territoriale. Questa sostituzione non è il segno del destino o l’inesorabile procedere del tempo, è risultato di una democrazia voluta senza democrazia.

Una democrazia partecipata si misura sulla crescita collettiva del sapere e del suo apprendimento, sullo sviluppo dell’autonomia individuale e del senso critico, sulla sensibilità sociale e ambientale, sul rispetto della cosa pubblica, sulla cultura del bene comune, sul primato della cooperazione rispetto alla competizione ma soprattutto sull’idea che ciascuno può veramente affermare la propria diversità, la propria alterità, la propria autonomia, la propria dignità, soltanto se la società offre a tutti indistintamente una reale condizione di eguaglianza civile e sociale. Il movimento dei neri e quello femminista ci hanno insegnato che l’eguaglianza è il contrario dell’omologazione e del conformismo, non presuppone l’adeguamento alla norma dominante, bensì l’orgoglio di un’appartenenza che non si chiude in sé stessa. E’ a queste condizioni che un essere umano può riconoscere se stesso ed essere riconosciuto dagli altri come cittadino.

Ma, al di là di tutto questo, sul versante della riflessione filosofica, forse è venuto il tempo di dire che l’epoca di Foucault, Deleuze, Derrida (l’epoca, non Foucault, Deleuze, Derrida) è finita e, come la sinistra, è finita con la caduta del Muro di Berlino, con il trionfo del neoliberismo, con l’arrivo del Covid-19. Oggi la giusta critica dello stato autoritario, che acquistava una particolare urgenza al tempo dei socialismi reali, non si distingue quasi più dall’idea liberale e liberista dello stato minimo. Nel caso dell’utopia liberale lo stato minimo favorisce, in nome della libertà, la logica del profitto, della privatizzazione selvaggia, delle diseguaglianze sociali ed economiche, nel caso dell’utopia comunista il sogno della semplificazione burocratica di uno stato minimo si è tradotto nell’incubo di un’ipertrofia statale autoritaria e violenta.

  1. Lo stato minimo è proprio l’unica soluzione possibile di libertà? E se si riprendesse in considerazione, alla luce del terzo millennio, l’idea di uno stato sociale e di istituzioni pubbliche strutturate in modo non aziendalistico proprio per i fini che hanno, come la sanità, la scuola, la ricerca, l’università? Se tornassimo a ricordarci anche di Keynes e di Polanyi oltre che di Marx e di Weber?
  2. E’ necessario e urgente farla finita con il discorso sulla fine delle grandi narrazioni e delle ideologie e addirittura con la fine della storia. Il risultato di questa sorta di mantra è stato un totale oblìo del rapporto tra passato e futuro e la totale soggiacenza all’ideologia della fine delle ideologie.
  3. Metafore come il rizoma che esaltava il liberarsi del molteplice da un lato sono state liberatorie, così come lo è stato Nietzsche con la sua critica del linguaggio e della verità, e tuttavia abbiamo perso il senso dell’uno che oggi va visto alla luce del molteplice, così come bisogna riprendere il tema della finzione (da fingo: formo, creo, immagino) come pratica di verità.
  4. Oggi la storia politica e sociale non può più essere separata dalla storia naturale con la quale inestricabilmente si innesta. Ciò richiede nuove grandi narrazioni e nuove grandi visioni globali legate al futuro in un mondo dove l’intreccio fra naturale e artificiale e fra umano e ambientale rischia di diventare una catastrofe là dove potrebbe essere invece una risorsa fondamentale. E’ evidente che nel capitalismo i disastri ambientali sono connessi alle diseguaglianze sociali.
  5. Occorre un partito la cui forma preveda quelle strutture intermedie che lo rendano capace di mantenere il campo lungo del tempo, di un tempo che vada ben oltre le scadenze istituzionali, un tempo capace di abbracciare il futuro. Una democrazia senza democrazia con partiti leggeri e arcaicamente organizzati secondo l’accettazione plebiscitaria di un leader, partiti che si nutrono di consensi immediati non possono avere progetti di lungo periodo.
  6. E’ importante affermare, nel lavoro come nella vita naturale e sociale, il primato della cooperazione sulla competition. Nella cooperazione progettata con altri, l’individuo sviluppa la facoltà della sua specie, ma, nello stesso tempo, la cooperazione è il mezzo più potente di sfruttamento umano. Nel lavoro l’uomo può estrinsecare sé stesso, ma, nello stesso tempo, il lavoro è lo strumento per l’uso umano di esseri umani. E’ dentro questa tragica ambivalenza che sta la contraddizione da sciogliere.
  7. Alla prosa del mondo (Hegel, Merleau-Ponty) si deve accompagnare la poesia della vita. Si può lottare per meno? Poesia ha attinenza con il fare e mi piace legarla al senso del fingere cioè del plasmare, dare forma e figura, creare nel senso umano, non dunque dal nulla, ma da qualcosa, da ciò che si trova nella prosa del mondo, che come tale non ci basta, così come non può bastarci un presente che non abbia futuro e si dimentichi del passato.

Mi rendo conto che chiedere di intrecciare il tempo lungo della riflessione teorica e culturale con il tempo breve dell’azione politica è oggi fuori tono, se non addirittura lontano dal senso comune, eppure se, come aveva scritto Kant nel 1784 e ribadito Foucault due secoli dopo, l’illuminismo è l’uscita da uno stato di minorità e la minorità è l’incapacità di sapere usare il proprio intelletto senza la guida di un altro, forse è venuto il momento di cercare questa uscita autonomamente, senza la guida neoliberista oggi dominante. D’altra parte quando Marx e Engels rilevavano che le idee dominanti sono le idee della classe dominante, lo facevano per mostrare ciò che i prigionieri della caverna di Platone non vedono e non sanno di non sapere, proprio come la sinistra oggi. Quest’ultima, sul piano delle idee e dell’azione, da che parte intende stare? Certo non si devono semplificare le cose, ma, a volte, come ricordava Primo Levi, semplificare è necessario. Basta sapere che di semplificazione si tratta, utile a togliere alibi e ipocrisie e anche a praticare un principio della democrazia che è appunto partecipare, cioè prendere parte, meglio prendere partito.

*L’immagine in evidenza è un’opera di Mariano Sommella edita da il Laboratorio di Nola

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2 commenti

  1. l’unica alternativa a questa pseudodemocrazja è la partecipazione……..

  2. l’unica alternativa è la partecipazione….strutturata, organizzata, ……a mo di democrazia deliberativa…..

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