A ottant’anni dalla “svolta di Salerno”

Ritorna in libreria il testo del discorso di Togliatti al cinema Modernissimo di Napoli

Il vecchio muore e il nuovo stenta a crescere. Antonio Gramsci aveva anticipato l’inesorabile contraddizione che stritola la sinistra. E che oggi ci porta a rileggere passaggi fondamentali della sua storia nella necessità di trovare indicazioni e soluzioni al dramma di una sua progressiva emarginazione. A ottant’anni dal discorso a Napoli, con cui Palmiro Togliatti avviò la strategica “svolta di Salerno”, inaugurando un dualismo fra le due città che, dopo la tragedia della guerra, ha visto numerose farse in casa Pd, si pone una nuova occasione per guardare alla storia senza rimanere prigionieri del passato.

La necessità di tornare a quel testo è stata avvertita dalla casa editrice Infiniti mondi, diretta da Gianfranco Nappi, che ha riportato in libreria il documento di Togliatti, imbastendovi sopra una discussione di cui il primo atto è andato in scena a Napoli nel giorno in cui si ricordava l’anniversario dello storico discorso al cinema Modernissimo, nel capoluogo partenopeo, l’11 aprile, con lo storico Francesco Barbagallo, e quell’Antonio Bassolino che ancora simboleggia l’ultima grande stagione di un primato culturale e amministrativo della sinistra napoletana. Come sempre, quando si torna ai grandi passaggi della storia, il rischio è quello di rimanere schiacciati dalla potenza di un gesto o di un pensiero che ebbe grande effetto. In questo caso, mentre si viene consumando l’ennesima forma di autodistruzione del Pd, in cui la politica è messa in ombra dalla limitatezza soggettiva dei personaggi in campo, diventa quasi irresistibile la comparazione fra oggi e ieri, fra quei giganti e gli attuali nani. A Napoli la discussione attorno al discorso di Togliatti non è sfuggita a questo pericolo, rimanendo invischiata in una retorica, e per certi versi anche acritica, celebrazione di quel tempo, senza coglierne le caratteristiche storiche che rendevano il Pci e il suo massimo dirigente i soggetti di una strategia globale che era stata tracciata dalle grandi mani delle potenze che stavano vincendo la guerra. Ma Togliatti, da quel raffinato intellettuale vestito degli ordinari panni di uno dei tanti gangli gestionali della ramificata rete terzointernazionalista, ci mise del suo, facendosene straordinario interprete e vettore.

Veniamo intanto al testo. Come sappiamo, Ercoli, nome di battaglia del segretario del Pci, ottiene da Stalin l’autorizzazione a tornare in Italia dopo l’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre del 1943. Organizza allora un lungo e complesso viaggio che lo porta a girovagare fra Baku, Teheran, Il Cairo, Algeri, e infine a imbarcarsi per l’Italia, dove arriva a fine marzo 1944. Il nodo da sciogliere riguarda l’impasse in cui si trovano i partiti antifascisti dopo la formazione del governo Badoglio, paralizzati dalla pregiudiziale antimonarchica e dal rifiuto di una parte prevalente a collaborare con un governo comunque compromesso con il regime fascista caduto. Togliatti taglia il nodo gordiano con la spada di una chiara e argomentata strategia, concordata con Stalin in persona qualche giorno prima della sua partenza da Mosca, sempre nelle modalità con cui si poteva immaginare di concordare, e non semplicemente di eseguire, una soluzione con il capo del Cremlino: inserire il Pci nel novero delle forze costitutive della nuova Italia per aggirare quell’intesa sulle zone di influenza di Yalta, che assegnava il nostro Paese agli anglo-americani, consentendo all’Urss di mantenere una sua forma di influenza nel Mediterraneo. La forza di quella politica consisté proprio nella completa coincidenza con gli interessi materiali del Paese, e con le obiettive ambizioni del movimento popolare che, grazie alla duttilità della scelta di cui Togliatti si fece promotore, divenne poi parte fondante della successiva Repubblica.

Si coglie qui l’aspetto ancora vivo di quel discorso, che non riguarda la riproposizione meccanica della difesa delle radici popolari rivendicate da Togliatti per il nuovo partito, quanto l’attenzione allo scenario socioeconomico e geopolitico complessivo. Scandisce bene il segretario nel suo rapporto ai quadri: “È assolutamente finito il periodo in cui il partito poteva limitarsi a essere un partito di propaganda. Dobbiamo dare al popolo la guida di cui ha bisogno. Il partito era il più deciso nella lotta antifascista. Oggi cambia il carattere di questa lotta. Deve esaminare ogni problema dal punto di vista della nazione, dello Stato italiano. Compiti del partito: essere un partito di massa, risolvere i problemi della nazione”.

Più avanti il dirigente comunista aggiunge un altro tassello al mosaico: “Il cambiamento di carattere del Partito comunista è legato a tutta una serie di fatti nuovi: esistenza del potere sovietico; fallimento della borghesia italiana; cambiamento (grazie all’Urss) dei rapporti di forza nell’unità antifascista internazionale”. Si coglie qui la relazione fra il radicamento sociale del partito – la classe operaia – e la suggestione di una prospettiva che rimane sullo sfondo ma che, proprio per l’incombenza sulla scena mondiale dell’Urss, è una variabile concreta che porta i lavoratori ad avere una legittima ambizione e speranza, in nome della quale governare lo Stato.

Con questo nuovo sforzo, aggiunge Togliatti, bisogna essere capaci di leggere attentamente le dinamiche sociali e globali.  È la matrice che porta il Pci ad accantonare la pregiudiziale antimonarchica e ad aprire a una collaborazione con Badoglio, rimettendo in movimento tutta la politica italiana. Esattamente questo fu lo spirito che, trent’anni dopo, condusse Enrico Berlinguer a elaborare la strategia del “compromesso storico”, ancora in una realtà in cui la base sociale del partito era quella dei produttori subalterni, e dunque quel compromesso era anche legato a quel patto dei produttori che permetteva alla sinistra di interferire nelle scelte economico-finanziarie.

Ma oggi? Cosa direbbe Togliatti sbarcando in un Paese in cui quel tessuto economico è del tutto diverso dallo scenario da lui tratteggiato: non esiste né la “patria socialista” né una plausibile ambizione di rovesciamento del capitalismo, si è dissolta la fabbrica come luogo principe di creazione della ricchezza, si è frantumata la classe come corpo sociale unitario e uniforme. Questo è il quadro in cui la sinistra è chiamata a operare nel nostro secolo. E in cui la mancanza di un rigore e di una bussola nazionale, rivendicata da Togliatti, la porta, dinanzi alle difficoltà, a rifugiarsi in una sterile riproposizione di antichi fasti.

La riedizione del discorso del Modernissimo è un’occasione per riflettere su un metodo, e tale è stata la finalità di Infiniti mondi: non quella di celebrare nostalgicamente un contenuto di cui non esiste più la minima traccia, quanto piuttosto fare riferimento a una cultura politica che aiuterebbe a leggere i nuovi processi. Con Togliatti, oltre Togliatti – sostenne Lucio Magri in un convegno a Milano alla metà degli anni Settanta. Quell’invito andrebbe raccolto e usato, adattando la cassetta degli attrezzi di chi in quegli anni di ferro e di fuoco colse l’opportunità per trasformare una setta di “rivoluzionari di professione” in un grande partito nazionale. E oggi, pensando all’interesse di un Paese umiliato da un governo reazionario e oppresso dal dominio tecnologico di proprietari monopolistici, avrebbe un grande bisogno di quella visione e di quella risoluta capacità di scavalcare le tradizioni e dimenticare i miti per navigare in mare aperto.

Michele Mezza

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