Ci ha lasciati ieri Vito Faenza, storico giornalista de l’Unità di Napoli, uno di quei Ragazzi di Via Cervantes a cui abbiamo dedicato tante occasioni di riflessione in questi ultimi anni. La mia generazione lo ricorda in modo particolare per l’esperienza del Movimento di giovani contro la camorra che trovò in lui un osservatore attento e capace di fare vero giornalismo di inchiesta quando era perfino difficile pronunciarla la parola camorra.

Lo vogliamo ricordare ripubblicando il suo pezzo per lo speciale I Ragazzi di via Cervantes, con il commosso contributo di Luigi Vicinanza e pubblicando l’articolo con cui la carissima Nora Puntillo l’ha ricordato oggi sul Corriere del Mezzogiorno.

Un grande abbraccio a tutti i suoi familiari.

Ciao Vito.

IL RICORDO DI LUIGI VICINANZA

Ha raccontato la camorra quando non era ancora un argomento di consumo seriale. La camorra prima di Gomorra. Intrighi, alleanze, vendette, tradimenti, omicidi, soldi: non c’era affare criminale che non sapesse inserire nella giusta casella di un mosaico sanguinario. Vito Faenza – scomparso il 19 luglio a 74 anni non ancora compiuti – è stato un giornalista coraggioso e di valore, tra i primi a intuire la trasformazione in atto tra i clan dell’entroterra napoletano nella seconda metà degli anni 70 del Novecento. Non più bande di guappi di paese, marginali rispetto ai processi decisionali di un’economia sempre più globale, ma attori in affari nuovi, appalti, cemento, edilizia, con rapporti sempre più stretti con la politica locale. “Erano gli anni in cui la cronaca nera non era ritenuta in gran conto nel giornale” ha ricordato lo stesso Vito in un bel saggio del marzo 2021 pubblicato da “Infiniti Mondi”. 
Faenza era uno dei ragazzi e delle ragazze di via Cervantes, quel nucleo di inesperti giornalisti tra i 20 e i 30 anni riuniti da Ennio Simeone prima e da Rocco Di Blasi poi nella redazione napoletana de “L’Unità”. Avemmo modo di imparare il mestiere nell’aspro e tumultuoso succedersi degli eventi di quegli anni. Vito proveniva da una felice esperienza sportiva, aveva giocato nella serie A della pallavolo. Salde radici ad Aversa, il luogo dal quale non si è mai staccato (la moglie, l’archeologa Luisa Melillo, è attualmente assessora comunale della città normanna); e Aversa la riconosci subito come sfondo ideale dei suoi romanzi recenti. L’ultimo, pubblicato appena pochi mesi, “L’altra metà del cielo”, dolce e amaro al tempo stesso, è quasi il suo lascito testamentario dopo una vita professionale intensa.

Comunista, di una famiglia di comunisti italiani. La mamma Mariateresa Iacazzi, cui Vito era molto legato, è stata una dirigente del PCI aversano, femminista d’altri tempi. Lo zio, Angelo Iacazzi, deputato PCI per più legislature in Terra di Lavoro. Vito così è cresciuto a pane, politica e sport. Ma una volta messo piede in redazione, in via Cervantes, si butta sulla cronaca nera. È proprio nell’area aversana, terra che ben conosce, il laboratorio criminale della mutazione genetica dei clan. A partire dal clan Bardellino, affari trasversali in Italia e all’estero. Un sistema sperimentato in quegli anni che evolverà nello strapotere dei Casalesi. Vito è uno straordinario affabulatore. Non c’è inviato della grande stampa nazionale che in quegli anni non faccia tappa nella redazione de “L’Unità”; tutti sanno di ricevere una generosa accoglienza basate su notizie, analisi, dritte per districarsi nel caos metropolitano. L’archivio di Faenza, zeppo di ritagli di giornali, è prezioso per tanti. Spesso Vito condisce le storie di camorra con suoi personalissimi racconti, ma quando si tratta di scrivere è attento e rigoroso a utilizzare fonti certe. Non smentibile. Tra alcuni dirigenti del PCI, sul finire dei ’70, serpeggia un certo fastidio per lo spazio dedicato ai fatti di camorra che giudicano eccessivo; ritengono sia solo semplice cronaca nera. Rocco Di Blasi, il “capo”, non molla però.

Il sisma del 23 novembre 1980 distrugge paesi interi, falcia oltre tremila vite, trasforma la geografia dei luoghi. Ma non solo quella. Un’altra mutazione si sta generando. I più veloci appaiono gli assassini sanguinari riuniti da Raffaele Cutolo nella Nuova camorra organizzata. Già la sera del terremoto nel carcere di Poggioreale fanno scempio dei nemici carcerati: tre affiliati al cartello rivale della Nuova Famiglia, tra i 24 e i 28 anni, vengono massacrati in un infernale sabba sanguinario. È l’inizio di una nuova guerra per controllare i flussi di denaro in arrivo per l’emergenza e allungare le mani sulla ricostruzione post-sisma. Quella notte del terremoto Faenza partì con la sua auto, insieme a Rocco Di Blasi, nei luoghi sconvolti dell’Irpinia. Si ritrovarono tra le macerie con Antonio Bassolino, allora segretario regionale del PCI. Lo ha ricordato lo stesso Bassolino in un affettuoso tweet dedicato a Vito. Cinque mesi dopo il terremoto, il sequestro Cirillo. Una trama mai del tutto svelata. Tutto ebbe inizio intorno alle 21,45 del 27 aprile 1981 a Torre del Greco. Quattro terroristi delle Brigate Rosse aspettano sotto casa l’assessore regionale della Democrazia Cristiana Ciro Cirillo. Le armi fanno fuoco per uccidere il brigadiere della polizia in servizio di scorta, Luigi Carbone, 57 anni, e l’autista Mario Cancello, 33 anni. Cirillo viene rapito e segregato in una “prigione del popolo”. “Hanno tirato fuori l’assessore dall’Alfetta blindata; l’hanno colpito alla testa con il calcio della pistola mentre un altro mi ha sparato contro. Sono vivo per miracolo…” racconta dal letto dell’ospedale Ciro Fiorillo, segretario dell’assessore, ai due cronisti della redazione napoletana de “L’Unità” – Vito Faenza ed io – giunti a Torre del Greco fortunosamente prima degli investigatori della Polizia. Non esistevano gli smartphone allora ma le notizie correvano lo stesso. E che notizia. Di lì a poche ore stava per mettersi in moto un meccanismo perverso, una triangolazione Br-camorra-Stato che ha avvelenato la vita pubblica per decenni. 

Per reazione, finalmente, si organizzano i movimenti anti-camorra, gli studenti in prima fila, la Chiesa di don Riboldi e il sindacato, il PCI. Così anche chi su “L’Unità” ha scritto di camorra viene apprezzato. Faenza sarà il “camorrologo” per eccellenza, neologismo da lui stesso coniato. Terminata la straordinaria avventura professionale e umana de “L’Unità (le pagine locali furono soppresse nell’agosto 1984, Vito ha continuato a lavorare come inviato per il giornale fondato da Antonio Gramsci fino alla fine degli anni 90), Faenza ha trasferito il suo bagaglio di conoscenze al “Corriere del Mezzogiorno” con Marco Demarco, l’ultimo capocronista di quella pattuglia de “Le ragazze e ragazzi di via Cervantes”. Quando l’anno scorso, il 25 novembre 2021, fu presentata la monografia di “Infiniti Mondi” curata da Gianfranco Nappi (“Quasi una cronaca delle vicende e dei percorsi della redazione napoletana de L’Unità” recita il sottotitolo), Faenza non potette partecipare, seguì via Facebook la discussione. La malattia incombeva.

I romanzi ultima sua passione. Una forma diversa di giornalismo. Meno militante, più riflessivo e poetico. Dall’esordio felice con “L’isola dei fiori di capperi” (2013), a “Il terrorista e il professore” al recente “L’altra metà del cielo”. In quest’ultimo testo Faenza riporta una frase di Cesare Pavese: “Le cose si scoprono attraverso i ricordi che se ne hanno. Ricordare una cosa significa vederla – ora soltanto – per la prima volta”.

A Vito Faenza ho voluto bene, non si poteva non volergliene. Abbiamo trascorso anni giovanili intensi, in coppia, gomito a gomito, compagni di banco in quella via Cervantes, tra la Posta centrale, la Questura, la sede del PCI in via dei Fiorentini e Palazzo San Giacomo. In compagnia di Vito sembra quasi di rivederla scorrere questa nostra vita. Dolce e amara.

Luigi Vicinanza

NORA PUNTILLO SU IL CORRIERE DEL MEZZOGIORNO

DA LE RAGAZZE E I RAGAZZI DI VIA CERVANTES. SPECIALE INFINITIMONDI

VITO-FAENZA

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