Il turismo non è mai uguale a se stesso e dunque una discussione aggiornata e adeguata ad esempio sul turismo a Napoli e in Campania non può svolgersi come se fosse sempre uguale a se stessa: oggi come 20, 30 o 40 anni fa.
Proprio Napoli e il suo centro storico, trent’anni fa o giù di lì, era una realtà largamente invivibile, dominata dal degrado urbano, con una larga influenza criminale, in tanti casi con una presenza diffusa dei famosi ‘tubi innocenti’ che dal terremoto dell’80 avevano ‘arricchito’ il panorama della città.
Una politica per il turismo per la Napoli dai primi anni ’90 era parte del bisogno di riaccendere una concreta speranza sul futuro di una città in ginocchio.
Ed è anche in questa ottica che si svilupparono azioni e scelte politiche, processi di riqualificazione urbana e civile di grande importanza, e andati di pari passo con il crescere dell’interesse e dalla capacità attrattiva di spazi sociali e luoghi storico-culturali con tratti di assoluta unicità.
In questo senso lo spazio, anche quello turistico, si crea, non è dato oggettivamente.
Ce lo ricorda assai opportunamente Alessandra Esposito, giovane ricercatrice universitaria napoletana, ma Dottoranda a La Sapienza a Roma, che ha sviluppato un lavoro di grande interesse sul tema e recentemente dato alle stampe : Le Case degli altri. Ed.It. 2023:


Quello delle vocazioni è un espediente retorico che spesso finisce con il naturalizzare le monocolture, cioè lo sfruttamento delle risorse territoriali ad un unico fine, che può essere la coltivazione di un singolo prodotto o la riconversione dei luoghi in luna park turistici, in entrambi i casi è proporli al consumo di massa. Seguendo la lezione lefebvriana, lo spazio è sempre un prodotto, cioè il risultato di un processo che abbiamo contribuito ad innescare a partire da azioni e pratiche specifiche”.


Questa fase si incrociò con l’esplosione della globalizzazione, con la sua fase ascendente per tutti gli anni ’90 e successivi: incremento del traffico aereo, voli low cost, tutto il mondo a portata di ‘portafoglio’, ingresso di nuovi protagonisti sulla scena globale, la ricerca di mete popolari e cariche di storia…Napoli, e Sorrento, Pompei, le Costiere campane con le isole, luoghi.
Quindi per una città in ginocchio e emarginata, come era la Napoli di quegli anni, la scelta del turismo e della cultura non uniche allora certo, e però furono tra le scelte importanti che caratterizzarono non poco dell’esperienza bassoliniana.
30 anni dopo misuriamo quello che non so se fosse già chiaro allora ma che sicuramente in modo eclatante negli ultimi dieci anni buoni si è affermato in modo deciso e oramai ai limiti della sopportabilità , come la ricerca di Alessandra Esposito proprio su Napoli ci aiuta a capire meglio: il turismo è diventato anch’esso uno dei terreni rientrati a pieno titolo in quelli di estrazione massima possibile di valore ad opera di un capitalismo che nella sua voracità tutto ingloba e tutto pone al servizio dei propri obiettivi.
E così, luoghi e spazi si saturano fino all’inverosimile, sono sottoposti ad una pressione difficilmente sostenibile fino al punto di doversi porre il problema concreto di porre dei limiti alle presenze turistiche in quella che con brutto ma efficace termine viene definita come turistizzazione che, come scrive Alessandra Esposito si presenta come intimamente legata “ all’economia della rendita e delle sue nuove e digitalizzate forme estrattive alla luce delle quali, più che un volano per le economie locali, il turismo di massa si rivela una diseconomia che impoverisce e deprime i contesti urbani”.
Ecco il punto cui siamo giunti. Fino allo sviluppo al suo interno di dinamiche estreme che spingono per una modificazione della composizione sociale dei centri storici dove, sotto la spinta della rendita, i locali a fronte strada tendenzialmente diventano spazi di somministrazione di cibo che allude alle tipicità ma che in larghissima misura le contraddice, mentre con i fitti brevi vengono spinti fuori dai contesti abitativi i residenti più esposti, deboli e poveri a favore di altre valorizzazioni della rendita immobiliare: AirBnB docet.


Napoli sta velocemente entrando in questa avanzatissima forma di modernizzazione passiva potremmo dire, e si sta omologando a città che da tempo hanno vista del tutto snaturata la vita sociale di loro parti essenziali, come Roma, Firenze, Venezia. E’ così? Certo i segnali vanno tutti in questa direzione.
E se è vero, come scrive Alessandra citando Cocola-Gant:
Il problema dell’espulsione e dell’esclusione degli abitanti del luogo, non è una conseguenza del turismo stesso, ma una conseguenza della speculazione immobiliare, della liberalizzazione degli uffici, della mancanza di alloggi sociali e della mancanza di regolamentazione del mercato immobiliare. Il turismo ha moltiplicato l’esclusione che si genera quando l’abitazione è soprattutto un’opportunità di guadagno” , allora in ogni caso, se quella deriva si vuol provare ad incrociarla e rallentarla o addirittura invertirla, occorre affermare un nuovo potere di regolazione sociale e pubblica, da parte intanto della Regione e degli Enti locali, magari in attesa di una nuova normativa nazionale, che fissi alcuni criteri base, come il numero massimo di giornate a stagione per il fitto breve, il dover vedersi rilasciata una licenza dal Comune per operare ed un numero definito di licenze per anno, incentivi a diversificare le tipologie abitative, sostenendo quelle popolari, la rivitalizzazione di un tessuto artigianale e di artigianato artistico di cui rimane sempre più solo l’allusione, a cominciare da San Gregorio Armeno, disincentivi allo junk food…E poi, Capodichino si può dire che ormai è un aeroporto più che saturo? Che è sbagliato immaginare una sua espansione o una ulteriore intensificazione del suo traffico? E possiamo dire che non ci sono altri aeroporti da espandere in Campania o ora si parte con Pontecagnano come se nulla fosse: altre piste, ampliamenti, salita verticale di traffico….? E per intasare quali spazi?


Tutto questo discorso, si badi bene, non ha nulla a che vedere con il refrain borghese e tardo nobiliare, diciamo così, che vede nel turismo di massa una invasione di ambiti e spazi prima invece consacrati solo alle èlite che sapevano apprezzare.
Non può essere certo il turismo popolare il feticcio e il ritorno al turismo per pochi la soluzione.
Insomma, c’è un governo del territorio da porre in essere. Ed è esattamente quel che è mancato del tutto al centro storico napoletano.
Un ultimo dato utile a disvelare un altro degli inganni della voracità neocapitalistica ci viene sempre da questa interessante e per tanti versi illuminante ricerca della giovane studiosa napoletana.
Il fitto breve si è presentato come opportunità democratica: per il turista, che trovava a migliori condizioni economiche un pezzo di vita decantato come originale di una città del tutto immaginaria e fissata nelle sue storture anche e per il piccolo proprietario che vedeva in questo modo, in tempi di crisi perdurante peraltro, la possibilità di ‘guadagnare’ porzioni aggiuntive di reddito. Per una fase e per segmenti di mercato sicuramente è stato anche così e questo ha dato, e da tutt’ora una certa base sociale di consenso al processo, ma più il tempo passa e più si rendono evidenti i costi sociali della logica della turistizzazione.
C’è un dettaglio che scompagina infatti questo idilliaco quadro democratico e parla di processi di concentrazione della proprietà immobiliare che sono spinti proprio dalla rendita speculativa: il 59% del patrimonio immobiliare è detenuto dal 20% delle famiglie più abbienti.
Gianfranco Nappi

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