La fase politica in cui si trova il nostro Paese è una fase quantomai pericolosa, e a propria volta si situa all’interno di una fase storica che vede il crescere delle minacce verso la sopravvivenza stessa del genere umano (il rischio di escalation militare, la crisi climatica incipiente) e le forze del progresso in grande difficoltà.

L’Italia è al centro della crisi: tra i grandi paesi fondatori dell’Unione Europea, è quello che vede la propria democrazia maggiormente a rischio erosione, come testimoniano i dati dell’affluenza elettorale, a ogni tornata più drammatici della volta precedente, ed è il primo (e, speriamo, l’unico) in cui al governo si trova una coalizione omogenea di forze della destra, con quella estrema e neofascista nel ruolo di maggioranza relativa.
Questa coalizione, il cui impianto politico si regge sulla fedeltà alla NATO e sulla contemporanea sfiducia verso l’Unione Europea, si prepara ad un ulteriore attacco alle istituzioni italiane, con il progetto a tenaglia dell’autonomia differenziata accompagnata da una riforma presidenzialista della Carta Costituzionale.

Tutto ciò avviene mentre il campo del progressismo, diviso e litigioso, non sembra essere in grado di contrastare gli scivolamenti che si fanno via via più pericolosi.

È per questo che il “Congresso costituente”, inaugurato dal Partito Democratico, con l’apertura ad Articolo Uno e Demos, non può lasciare nessuno indifferente.
Chi scrive non ha mai militato nel PD, anzi, l’ha sovente criticato. Ma la politica esige un’analisi rigorosa, e questa ci dice che ciò che c’è oggi sul campo non è sufficiente.
Se, infatti, nell’ultimo congresso dei Democratici di Sinistra, Fabio Mussi concludeva il suo intervento (in cui annunciava la non partecipazione al processo di creazione del PD) augurando un doppio successo, al PD e a ciò che sarebbe stato da costruire alla sua sinistra, la situazione attuale è figlia di un doppio fallimento: quello del PD e di ciò che c’è alla sua sinistra.
Entrambi campi che si sono rivelati, alla prova dei fatti, ampiamente insufficienti.

Per questo motivo il Congresso costituente può essere uno snodo decisivo, per mettere in piedi qualcosa che sia all’altezza della necessità dell’oggi. E, a dire il vero, già si è visto un passo avanti non da poco: l’approvazione di una nuova “Carta dei valori”, che faccia da base per un nuovo partito più saldamente ancorato al socialismo democratico, è un risultato significativo.
Siamo però ora di fronte alla sfida decisiva, quella delle primarie, con le quali si sceglierà la guida del nuovo partito e chi governerà la fase costituente che deve ulteriormente continuare.

In quel ruolo la sinistra ha bisogno di Elly Schlein.

Questa convinzione deriva da una domanda: come si fa la sinistra nel 2023?

La sinistra ha la necessità di reinventare il modello di Paese. Quello della destra è chiaro: pochi grandi poli produttivi (principalmente al Nord), una colonia (estiva/improduttiva) al Sud, e poi un mare di sfruttamento.
Un modello coerente con l’oggi, che ne massimizza le caratteristiche: già da tempo, in Italia, il 50% dei rapporti di lavoro è atipico. E dunque, per lo più, precario, sfruttato, mal pagato e ricattabile.

L’orizzonte della sinistra non può più essere soltanto quello della rappresentanza di operai, quadri e pensionati (posto che troppo spesso, in anni passati, la sinistra ha fatto ben peggio, preferendo a questi i finanzieri e i benestanti): la sfida decisiva è quella della rappresentanza di lavoratori poveri, precari, stagisti, false partite Iva, saltuari e disoccupati. Sono le fasce che abitano lontano dai centri storici delle città, in condizioni di sempre maggiore marginalità, protagoniste dell’astensionismo e della sfiducia nei confronti della politica e delle istituzioni.

La candidatura di Elly Schlein è la più adatta al tentativo, non più rimandabile, di rifondare la sinistra a partire da chi storicamente è stato il motore della sinistra stessa: chi è più in condizione di ricattabilità, chi ha maggior bisogno di solidarietà, chi deve essere tirato fuori da una condizione di irrilevanza politica e chi ha i motivi più validi per richiedere a gran voce un cambiamento profondo.
Lo è per motivi biografici, per il posizionamento che ha sempre avuto (a partire dall’esperienza al Parlamento Europeo), per la padronanza che dimostra ogni volta che tocca questi argomenti, assieme a quelli dei diritti civili e della questione ambientale.

Non c’è in questa riflessione nessuna richiesta del(la) leader, della persona sola al comando: vi è però la consapevolezza che un processo di cambiamento organizzativo davvero profondo può avere origine solo da una cesura.
La vittoria alle primarie di una proposta radicalmente alternativa a ciò che è stato il maggior partito di centrosinistra di questi anni è l’opportunità migliore per costruire una sinistra che sia più stabile nella richiesta di un intervento innovatore dello Stato e del pubblico volto a correggere le storture del mercato, a cambiare il modello produttivo italiano fondato sulla competizione al ribasso nel costo del lavoro (piuttosto che nell’innovazione di prodotto o di processo), a procedere in una vera transizione ecologica.

Nessuno, chiaramente, può pensare – né intende suggerire – che una vittoria di Elly Schlein in queste primarie fermerebbe la guerra o la crisi climatica.
Ma sarebbe il primo passo della rifondazione di una sinistra innovativa nella capacità di affrontare i grandi problemi di quest’epoca, senza spezzare le proprie radici, ma anzi ricollegandole al tessuto vivo della società: ciò che è mancato nell’ultimo decennio. Perlomeno
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Lorenzo Fattori

Lorenzo Fattori è ricercatore universitario e componente della Direzione Nazionale di Art.1

L’immagine in evidenza è di Mariano Sommella ed è tratta da centoannipci.it

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