Pietro Del Zanna, agricoltore, ecologista, nel 1991 è stato il primo consigliere comunale verde a Poggibonsi, poi Assessore alla Pace e alla Cooperazione Internazionale del Comune di Siena 2005- 2006, Assessore all’Energia, Agenda 21, Azioni per la Pace e Cooperazione Internazionale della Provincia di Siena 2006-2009. Altra notazione di merito: è amico della nostra Iaia De Marco che ci fa avere questa Lettera Aperta di Del Zanna a Elly Schlein e che volentieri pubblichiamo

Cara Elly, perdona la lunghezza.
Ho appena preso la tessera del PD, cosa che, sinceramente, non avrei mai pensato di fare.
L’ho fatto dopo aver letto il “Manifesto per il nuovo PD” https://www.partitodemocratico.it/wp-content/uploads/Manifesto-per-il-nuovo-PD_Italia-2030-1.pdf

ed aver ascoltato tutta l’assemblea di domenica https://www.youtube.com/watch?v=h5lzgQAEbb0

L’ho fatto per poter partecipare al processo costituente e votarti alle primarie.

Da molti anni sento la mancanza di un soggetto politico adeguato alla fase storica che stiamo vivendo e da oltre un decennio ho, a volte promosso e sempre seguito con attenzione, processi politici che anelavano a questo obiettivo.

Sono un ecologista e la bussola che mi ha guidato in questi anni si può sintetizzare in queste parole del 1994 di Alexander Langer: Una riedizione della coalizione progressista o di altri consimili cartelli non riuscirà a convincere la maggioranza degli italiani a conferirle un incarico di governo. Ci vuole una formazione meno partitica, meno ideologica, meno verticistica e meno targata “di sinistra”. Ciò non significa che bisogna correre dietro ai valori ed alle finzioni della maggioranza berlusconiana, anzi. Occorre un forte progetto etico, politico e culturale, senza integralismi ed egemonie, con la costruzione di un programma ed una leadership a partire dal territorio e dai cittadini impegnati, non dai salotti televisivi o dalle stanze dei partiti. Bisogna far intravvedere l’alternativa di una società più equa e più sobria, compatibile con i limiti della biosfera e con la giustizia, anche tra i popoli. Da molte parti si trovano oggi riserve etiche da mobilitare che non devono restare confinate nelle ‘chiese’, e tantomeno nelle sagrestie di schieramenti ed ideologie. Ma forse bisogna superare l’equivoco del ‘progressismo’: l’illusione del ‘progresso’ e dello ‘sviluppo’ alla fin fine viene assai meglio agitata da Berlusconi.

Dopo tanti tentativi non andati a buon fine, con appelli vari rivolti anche a te (ne metto uno qui per esempio https://www.facebook.com/notes/1345788909086014/ ), non posso, ovviamente, lasciare cadere nel vuoto questo, pur vedendone l’estrema difficoltà e fragilità.

L’estrema fragilità è ben espressa dal caotico e in parte contraddittorio “Manifesto” che avete approvato domenica. Perfino Letta, pur definendolo, nella sua relazione, “bello, intenso, moderno, netto ed equilibrato” (aggettivi, credo, dovuti più al faticosissimo lavoro di mediazione che è costato che a una obiettiva valutazione del testo), ha riconosciuto che occorre lavorarci per “renderlo fruibile”. Il punto delicato è che non si tratta solo di un lavoro di forma, ma la forma confusionaria è dovuta al travaglio teorico che il manifesto prova a esprimere. Ed è il travaglio che attraversa il PD e tutta quell’ampia area politica che potrebbe e dovrebbe rappresentare, quella che tu, nel tuo libro, definisci “La nostra parte”.


Il manifesto coglie l’esigenza di un cambiamento di paradigma profondo, ma farfuglia, non riesce a definire con parole nette e chiare quale sia questo cambiamento di paradigma e lo si percepisce fin dal titolo del primo capitolo: “Un nuovo PD per promuovere lo sviluppo sostenibile….”

“Sviluppo sostenibile” – pietra filosofale o nuova formula mistificatrice?

Da qualche anno (rapporto Brundtland, 1987) la formula magica dello “sviluppo sostenibile” sembra essere la quadratura del cerchio così lungamente cercata. Nella formula è racchiusa una certa consapevolezza della necessità di un limite alla crescita, di una qualche autolimitazione della parte altamente industrializzata ed armata dell’umanità, come pure l’idea che alla lunga sia meglio puntare sull’equilibrio piuttosto che sulla competizione selvaggia; ma il termine “sviluppo” (o crescita, come in realtà si dovrebbe dire senza tanti infingimenti) è rimasto parte del nuovo e virtuoso binomio. Purtroppo basta guardare ai magri risultati della Conferenza di Rio per comprendere quanto lontani si sia ancora da una reale correzione di rotta. Sembra che il nuovo termine indichi piuttosto la propensione ad un nuovo ordine mondiale nel quale il Sud del mondo viene obbligato ad usare con più parsimonia e razionalità le sue risorse, sotto una sorta di supervisione e tutela del Nord: non appare un obiettivo mobilitante per suscitare l’impeto globalmente necessario per la conversione ecologica. (Alexander Langer 1994)


Si legge testualmente nel manifesto: “Siamo convinti che per riconoscere e tutelare i diritti fondamentali e garantire a tutte e tutti un’esistenza libera e dignitosa sia necessario un cambio di paradigma. Crediamo nel valore di un approccio integrato, fondato sulle tre dimensioni della sostenibilità: economica, sociale e ambientale.” E fin qui ci siamo. Si intuisce che il nuovo paradigma è la sostenibilità, ma subito dopo si legge: “Non può esistere una crescita duratura senza la lotta alle disuguaglianze ed è miope e ingiusto scaricare sulle future generazioni i costi ambientali e sociali dell’attuale modello di sviluppo” e si capisce che non si è capito qual è il passaggio di paradigma.
Nel documento compare 8 volte la parola “crescita” e 27 volte la parola “sviluppo”, mai la parola “conversione” ecologica, una volta “transizione” ecologica.

Eppure nel binomio “conversione ecologica”, più che transizione, è espresso chiaramente il cambiamento di paradigma, la lettura corretta della fase storica che stiamo attraversando: il passaggio dell’era dello sviluppo a quella della sostenibilità.
Come in ogni singolo individuo esistono più fasi del ciclo vitale – infanzia, sviluppo, maturità, vecchiaia – anche la storia dell’umanità ha le sue fasi. E tutte le fasi hanno i loro passaggi, più o meno graduali, dall’una all’altra.
Wolfgang Sachs nel “Dizionario dello Sviluppo” propone di chiamare “era dello sviluppo” quel particolare periodo storico che ha inizio il 20 Gennaio 1949 quando Harry S. Truman, per la prima volta, dichiarò nel suo discorso inaugurale l’emisfero Sud “area sottosviluppata”. Subito dopo aggiunge: “Ciò che nasce in un dato momento, tuttavia, può in un momento successivo morire”.
L’era dello sviluppo è recente e l’umanità ha trascorso molto tempo facendone “tranquillamente” a meno.
Molti anni fa, mi colpì molto un’immagine che si trovava nel libro di storia delle elementari di una delle mie figlie. Tra gli attrezzi utilizzati in agricoltura dagli uomini del neolitico c’era un aratro di legno tirato e spinto a mano da due uomini. L’aratro disegnato non è molto dissimile da quello che conservo nell’aia e che i contadini di qui utilizzavano ancora sessanta anni fa trainato da una coppia di buoi.
Nell’arco di circa diecimila anni abbiamo assistito alla sostanziale innovazione di aver attaccato i buoi all’aratro. Nell’arco di sessanta anni l’immane trasformazione avvenuta l’abbiamo sotto gli occhi: trattori mastodontici trainano aratri polivomeri in grado di affettare e rovesciare in poche ore intere pianure e colline, là dove fino a ieri coppie di buoi impiegavano settimane se non mesi per fare una lavorazione più superficiale.

Ora, se proviamo a fare un paragone con l’evoluzione di ogni singolo individuo, vediamo che l’età dello sviluppo è abbastanza breve rispetto all’infanzia da un lato e
all’età adulta dall’altro. Io credo che una politica che non ha consapevolezza della fase che stiamo attraversando è come un medico che non è consapevole delle fasi del ciclo vitale del proprio assistito.

Se allarghiamo ulteriormente lo sguardo, oltre la singola storia della nostra specie, e osserviamo l’evoluzione delle varie ere del nostro pianeta, scopriamo che ci stavamo avviando verso una glaciazione, quando, con “l’invenzione” dell’agricoltura (aggiungo contadina) abbiamo inaugurato un periodo di sostanziale stabilità climatica. Stabilità messa a repentaglio in pochi anni dal surriscaldamento dovuto al nostro “sviluppo” basato sui combustibili fossili.

Ecco, se ho notato una grande assente nel bel dibattito di domenica scorsa, non è “l’impresa” (come lamentato da Bonaccini e peraltro messa “al centro” da Letta che al centro ha messo tante cose, rendendolo un po’ affollato e contribuendo alla confusione che citavo all’inizio), ma proprio l’agricoltura che può e dovrà svolgere un ruolo fondamentale nella conversione ecologica necessaria.

Quindi si tratta di tornare indietro e rimpiangere un passato bucolico rigettando in toto la modernità?
No, assolutamente. Nessuno dice questo. Si tratta di prendere coscienza della radicalità e complessità dei problemi e cominciare a costruire vie d’uscita. Si tratta di comprendere che siamo a un bivio come altre volte è capitato.
Varie civiltà vi si sono già trovate. Ce lo ricorda Lester R. Brown nel suo “Piano B.3.0”, tradotto da Dario Tamburrano. Sei secoli fa gli islandesi realizzarono in tempo che l’eccessivo sfruttamento dei pascoli erbosi sugli altopiani stava causando una grave perdita di terreno. Gli allevatori si accordarono tra loro per calcolare quante pecore gli altopiani potessero sostenere e poi distribuirono le quote tra di loro così da preservare i loro pascoli. Esempio diametralmente opposto la civiltà sumera che nel IV millennio a.C. aveva sopravanzato ogni altra società precedente. Il suo ingegnoso sistema di irrigazione aveva permesso l’aumento della produzione agricola. Il controllo del sistema irriguo sumero richiedeva una sofisticata organizzazione sociale. I Sumeri fondarono le prime città e la prima lingua scritta. Ma c’era un difetto di “sostenibilità ambientale” nel progetto del sistema irriguo. Con l’andare del tempo, l’accumulo di sali minerali sui terreni portò ad una diminuzione del rendimento agricolo. A quel punto i Sumeri passarono alla coltivazione dell’orzo, una cultura che tollerava meglio la salinità. Questa scelta posticipò il declino della civiltà sumera, che curò il sintomo e non la causa della riduzione dei raccolti. Come crollò l’approvvigionamento di cibo declinò la civiltà.
Gli islandesi dimostrarono una “capacità politica” di individuazione e gestione del problema, cosa che non furono in grado di fare i Sumeri.
Noi “curiamo i sintomi” delle crisi che stiamo attraversando o ne cogliamo le ragioni fondo?

E qui torniamo a noi, all’urgenza di un passaggio di paradigma che sappia tenere insieme giustizia climatica e giustizia sociale.
Che dallo sviluppo e la crescita (e aggiungo all’impresa) fine a se stessi passi alla sostenibilità che sia ecologica, sociale ed economica.
Quindi il valore, per rispondere a Bonaccini, non è l’impresa in sé, ma l’obiettivo che l’impresa si pone. Anche qui nostri comuni amici (Fabio Roggiolani, Michele Dotti e Jacopo Fo) da anni ci indicano una strada percorribile con tutte le attività di ecofuturo https://www.ecofuturo.eu/ che tutto sono, meno che guardare indietro ad un bucolico passato.
Con questa visione di fondo chiarita, tralascio una infinità di temi importanti emersi nel dibattito ed elementi da approfondire. Ci sarà il tempo per farlo.
Aggiungo solo che non posso che condividere l’orizzonte profondamente europeista, e il passaggio sulla vocazione mediterranea dell’Europa stessa. La centralità data, almeno a parole, alla partecipazione e alla democrazia, sia nel manifesto che nel dibattito di domenica.
Va dato atto che, al momento, il PD è l’unico partito, con regole democratiche condivise, che sta tentando un profondo cambiamento. Ma sono reduce da molti fallimenti passati, con altri partiti, per non conoscere e non vedere dove portano pur legittimi istinti di sopravvivenza.
Per questo dico a te, come ho detto qui sul territorio, che mi unisco in questo tentativo di costruzione di un nuovo PD, affinché sappia realmente aprirsi all’esterno ma con una identità precisa su cui aggregare. Se il tentativo dovesse fallire, tornerò tra l’ampia “diaspora” della “nostra parte” che non riesce a trovare una rappresentanza politica adeguata.

C’è una possibilità che questo processo vada a buon fine. Questo avverrà se, come auspicato da molti interventi, questa fase costituente si protrarrà oltre queste scadenze congressuali e se da parte di tutte e di tutti sarà assunto un metodo radicalmente nonviolento del confronto politico.
Se la capacità di ascolto e di valorizzazione delle differenze sarà reale e non si costituiranno immediatamente nuove correnti di nuovi apparati preoccupati più della propria sopravvivenza a servizio dell’ “ipertrofia dell’io” denunciata in modo commovente da Livia Turco domenica.

Cara Elly, l’ho fatta lunghissima. Ho scritto queste righe per spiegare la mia adesione, ma soprattutto per provare a convincere almeno alcune delle tante “riserve etiche”, per dirla con Langer, incontrate in questi anni di peregrinare verso il “soggetto politico che non c’è” a unirsi a questo importante tentativo.

Un abbraccio
Pietro


* L’immagine in evidenza è di Mariano Sommella ed è tratta da centoannipci.it

Print Friendly, PDF & Email

Vuoi ricevere un avviso sulle novità del nostro sito web?
Iscriviti alla nostra newsletter!

Termini e Condizioni *

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *