da magradotuttoweb.it

Tutto cominciò quasi per caso. O forse no. Il mio amico Sergio Viti, maestro alle elementari di Tonfano in Versilia, mi portò dai suoi alunni a discutere di filosofia. Con Sergio avevamo fatto insieme battaglie politiche e civili ma poi ci ritrovammo, sempre con le stesse idee di fondo, come insegnanti, io all’università, lui alle elementari. Ma non erano solo le idee che ci univano, era anche la passione di insegnare, che io scoprii piuttosto tardi, lui l’aveva da sempre. Sono passati molti anni da quel giorno nella classe di Sergio. Insieme con i suoi bambini di allora abbiamo pubblicato Le domande sono ciliege (Manifestolibri, Roma 2000) e poi, con un’altra classe, Per mari aperti (Manifestolibri, Roma 2005).

Da quegli incontri ho imparato tantissimo, forse più su noi adulti che sui bambini. Mi sono reso conto che Hegel aveva torto quando affermava che i miti di Platone non esprimono la sua vera filosofia, ma ne rappresentano una volgarizzazione. Le sue narrazioni allegoriche, i suoi mythoi appunto, producono un senso che non può essere colto interamente dalle sue astratte analisi concettuali. Le une e le altre colgono e afferrano parti di mondo i cui sensi non sono riducibili gli uni agli altri. Insomma, tutti i linguaggi sono traducibili e, nello stesso tempo, irriducibili l’uno all’altro. Tra l’uno e gli altri vi sono sempre scarti che ne impediscono la corrispondenza. La ricchezza filosofica non sta nel possedere il logos senza il mythos, ma nel possederli entrambi nella loro diversità. Il mito della caverna offre sempre e in modo inesauribile del senso perché la narrazione, la comprensione e l’interpretazione non si corrispondono mai in modo definitivo. Inoltre, la tradizionale assimilazione del bambino al primitivo e al folle rivela soltanto l’atteggiamento coloniale dell’adulto quando ha a che fare con la diversità e l’alterità che tende a considerare per ciò che non è, per il loro essere la semplice espressione della non adultità. Se la conoscenza implica, come deve implicare, che l’altro deve essere compreso nella sua alterità e il diverso nella sua diversità, allora, come aveva capito Merleau-Ponty, questo valeper i bambini rispetto ai quali dobbiamo sempre far sì che le relazioni di potere non si trasformino in stati di dominio (Foucault). Questo vale tanto per i genitori quanto per gli insegnanti.



I bambini fanno filosofia con altri mezzi, così come ci mostra Luca Mori nei suoi viaggi tra le scuole italiane dove è andato a rifare i mondi con loro. In Utopie di bambini. Il mondo rifatto dall’infanzia (ETS, Pisa 2017) Luca Mori riprende la Repubblica di Platone ma spingendola meravigliosamente più in là, fin dove possono spingersi i bambini che non hanno superato i dieci anni nell’immaginare ipotesi utopiche e politiche, nel rifare, appunto, il mondo.

I bambini apprendono a costruire i mondi intermedi, imparano a entrarvi e ad uscirne e lo fanno soprattutto attraverso il gioco. Lo abbiamo visto e vissuto da genitori con i nostri figli quando erano bambini. Ma noi adulti siamo debitori del nostro stesso essere stati bambini, perché ciò che viviamo come naturale, l’entrare ed uscire in mondi di senso che costruiamo con gli altri in modo cooperativo e sociale, lo abbiamo appreso in quel mondo diverso che è l’infanzia e abbiamo abbiamo aiutato i nostri figli ad apprenderlo. Non a caso torniamo a ricordarla quando siamo vecchi, perché la distanza di tempo può diventare memoria solo quando la diversità del nostro essere stati bambini viene da noi accettata come una struggente, meravigliosa, irreversibile diversità e alterità. Mi ha sempre dato da pensare il frammento di Eraclito che suona così: “ho indagato me stesso”. Mi piace pensare che ciò significhi la nascita della memoria del nostro essere stati bambini che comincia a formarsi e a premere nella nostra mente man mano che passano gli anni e noi accettiamo quella diversità e alterità del passato che è stata la nostra infanzia come qualcosa di vivo proprio mentre sappiamo che non c’è più e non tornerà e allora sappiamo che quel bambino che ben conosciamo e che alberga nella nostra testa siamo noi che essendo cambiati, restiamo noi stessi.

Alfonso Maurizio Iacono

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