GRAMSCI,TOGLIATTI E UN PARTITO NUOVO.

di Guido Liguori



Tornato in Italia il 27 marzo 1944 dopo diciotto anni di esilio, Togliatti rivoluzionò la politica e il modo d’essere del Partito comunista italiano, di cui era riconosciuto leader soprattutto per la posizione di preminenza che aveva avuto in esso e nel movimento comunista internazionale dalla fine del 1926, ovvero dall’arresto di Gramsci in poi.
A parte la decisione di far partecipare i comunisti a un governo di unità nazionale che non ponesse più come pregiudiziale la questione della monarchia o della repubblica e si concentrasse sulla lotta contro il nazifascismo, le novità della politica togliattiana sono da individuare nella accettazione del pluralismo politico e della democrazia parlamentare (da sostanziare, nelle intenzioni di Togliatti, con contenuti economico-sociali avanzati: la democrazia progressiva, come venne chiamata), e nella concezione di quello che fu definito un «partito nuovo»: un partito di massa, non settario, che sapesse «far suoi i problemi vivi della nazione» – come scrisse Togliatti in occasione del V Congresso del Pci, il primo del dopoguerra, tenutosi a Roma tra gli ultimi giorni del 1945 e i primi del 1946.
In numerosi discorsi e scritti, questa politica nuova dei comunisti italiani venne fatta risalire all’«insegnamento di Gramsci», insegnamento che – affermava Togliatti – non era «caduto nel vuoto» , era cioè stato ripreso, valorizzato e sviluppato dal suo partito (cioè da Togliatti stesso) non appena le condizioni storiche lo avevano reso possibile, con la caduta del fascismo e la fine della guerra.
Questa impostazione togliattiana della politica e del modo d’essere del Partito comunista italiano nello scenario nazionale e internazionale del secondo dopoguerra aveva in buona parte origine, in realtà, anche e forse soprattutto nella esperienza e nella riflessione di Togliatti degli anni Trenta (la politica dei fronti popolari, l’esperienza della guerra civile spagnola, le riflessioni sulla società di massa), nonché nella consapevolezza della nuova divisione dell’Europa e del mondo che aveva fatto seguito alla sconfitta del nazifascismo.


Ovviamente anche l’insegnamento gramsciano vi aveva un ruolo importante: Togliatti aveva potuto leggere i manoscritti di quelli che poi sarebbero stati noti come i Quaderni del carcere già dalla fine degli anni Trenta, durante la guerra di Spagna prima e poi negli anni terribili della Seconda guerra mondiale in Unione Sovietica. Per poter utilizzare politicamente i Quaderni, tuttavia, occorreva «tradurli» (per richiamare un termine gramsciano), bisognava adattare creativamente, non meccanicamente, la gramsciana «guerra di posizione» a una situazione per tanti aspetti nuova rispetto a quella in cui il comunista sardo aveva vissuto – una situazione nuova quale era quella dell’Italia degli ultimi anni della guerra e poi del periodo post-bellico.

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Del resto Gramsci era, nel 1944-1945, non solo per gli italiani in genere, ma per gli stessi militanti del suo partito, quasi uno sconosciuto. Egli era ricordato soprattutto come vittima del fascismo, raramente come segretario del partito, mentre era ignorato come teorico e intellettuale di valore, al di là di una ristrettissima schiera di dirigenti politici e uomini di cultura che lo avevano frequentato personalmente o letto negli anni Venti.
Fu proprio Togliatti , fin dagli ultimi mesi di guerra, man mano che la Penisola veniva liberata dal nazifascismo, a presentarlo agli italiani, ai comunisti, agli intellettuali, in primo luogo facendone il precursore della politica di unità antifascista che proprio lui, Togliatti, aveva elaborato e posto in essere sulla scia appunto delle esperienze degli anni Trenta e della visione geopolitica maturata nei primi anni Quaranta. Egli forzò, così facendo, almeno in parte il pensiero di Gramsci, riducendo anche in alcuni casi lo spessore della riflessione teorica carceraria del comunista sardo: riguardo alla tematica degli intellettuali, ad esempio, ebbe particolare rilievo nel Pci del dopoguerra l’aspetto della “alleanza” con gli intellettuali tradizionali, di contro all’analisi più complessa e innovativa fatta da Gramsci in carcere anche su questo tema.
In ogni opera di traduzione, del resto, vi è qualcosa che va perso: sempre il traduttore è anche un po’, inevitabilmente, un traditore – come insegna il motto traduttore traditore, che indica del resto una convinzione molto antica.
La necessità di far conoscere Gramsci in tempi rapidi veniva a Togliatti anche da una precisa necessità: fornire un passato al Pci, a un partito cioè che in pochi mesi era giunto ad avere dai 5-6000 militanti del luglio 1943, un milione e 700mila iscritti del dicembre 1945 , con tutti i problemi che comportava tale passaggio dall’essere un ristretto partito di quadri a divenire un grandissimo partito di massa. Anche per questo era necessario fornire tale partito di una tradizione storica e teorica unificante.
Certo, allora era potentemente in campo il mito dell’Unione Sovietica e di Stalingrado, dell’Unione Sovietica come principale artefice della vittoria contro il nazifascismo: l’importanza di questo fatto, che andava al di là del grande corpo dei militanti del partito comunista, e persino della sinistra, non può e non deve essere sottovalutata. Proprio per questo, però, vi era in Togliatti anche la volontà di ribadire la peculiarità del comunismo italiano, di riaffermare (senza rompere con l’Unione Sovietica, anche a prezzo di numerosi sincretismi) una linea teorico-politica che aveva le proprie radici nel III Congresso del Partito, svoltosi a Lione, in Francia, nel 1926 – politica (la “politica di Lione”) che Togliatti aveva cercato di difendere, invano, nei dibattiti ai vertice del Comintern, di fronte alla “svolta” del 1928-1929 voluta da Stalin; politica che era riaffiorata con il VII Congresso della stessa Internazionale comunista, il Congresso dei Fronti popolari, nel 1935; e poi con le riflessioni sulla guerra di Spagna, che Togliatti aveva vissuto in prima persona.


Lentamente e attraverso molti passaggi, molte esperienze, si era fatta strada in Togliatti negli anni Trenta la consapevolezza dell’importanza della democrazia, che doveva costituire un tutt’uno con la lotta per il socialismo. Convinzione, questa della coniugazione necessaria di democrazia e socialismo, rafforzata dalla lettura delle note carcerarie di Gramsci sull’importanza del consenso, nell’ambito della teorizzazione dell’egemonia come strategia adatta alle società sviluppate dell’Occidente capitalistico. E rafforzata anche dalle indicazioni che Gramsci aveva fornito al suo partito negli anni della prigionia, sulla necessità di uscire dal fascismo con una Costituente, e dunque sulla capacità-necessità di tessere un dialogo e delle alleanze con gli altri partiti antifascisti.
Non voglio con ciò dire che già in Gramsci vi fossero tutti i passaggi che avrebbero poi portato il Partito comunista italiano a sposare, nel dopoguerra, il tema della democrazia (come democrazia progressiva), e i comunisti, e in particolare Togliatti, a essere tra i protagonisti principali della scrittura della nuova Costituzione repubblicana; ma è vero che già prima del suo arresto, nel novembre 1926, il gruppo dirigente gramsciano e “la politica di Lione” avevano come proprio asse la convinzione che si sarebbe usciti dal fascismo non con una rivoluzione proletaria e con la dittatura del proletariato, ovvero che non fosse possibile replicare l’Ottobre 1917. Questa acquisizione – negata in un primo tempo dall’Internazionale – si era poi reincontrata con la politica dei Fronti popolari, anche se pure qui l’elaborazione dei Quaderni di Gramsci è più profonda, ampia, complessa e non sovrapponibile con la pura e semplice politica “frontista”. Tuttavia non era più del tutto divergente con essa.

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Resta a Togliatti il merito di aver fatto conoscere nel giro di pochi anni all’Italia e al mondo un grande intellettuale come Gramsci, dedicando al suo antico compagno di lotta, al suo Maestro (come lo ebbe allora a definire) non solo molti scritti e discorsi, ma promuovendo anche la pubblicazione dei Quaderni nella forma di una «edizione tematica» (l’edizione Togliatti-Platone, appunto, dai nomi dei due curatori), quella apparsa in sei volumi negli anni 1948-1951.
Tale edizione ha molti meriti ma anche non pochi difetti. Essa in primo luogo cancellava la diacronia degli scritti e della elaborazione di Gramsci in carcere, il carattere di laboratorio con cui egli aveva scritto i Quaderni (anche per le condizioni particolari in cui la sua riflessione si era svolta). L’edizione Togliatti-Platone, infatti, pubblicava gli scritti dei Quaderni (buona parte di essi) in forme e modi tali da risultare più facilmente comprensibili e favorirne la diffusione, ma per far ciò li scomponeva, presentando le note gramsciane in un altro ordine, e così facendo proponeva una loro ripartizione secondo una concezione tradizionale del sapere, anche in senso accademico (storia, filosofia, critica letteraria, teoria politica, ecc.). Andava persa in tal modo, in buona parte, la dimensione unitaria e strettamente politica della riflessione sia pure apparentemente labirintica di Gramsci.
L’«operazione Gramsci», come è stato definito il processo di presentazione della figura e dell’opera del comunista sardo nell’Italia del dopoguerra da parte di Togliatti, era dunque volta anche a creare un terreno d’incontro con gli intellettuali progressisti di formazione crociana, delusi dal conservatorismo del loro vecchio maestro. Oltre a essere diretta a dare una peculiare tradizione nazionale, politica e teorica, a un partito di massa che voleva essere in primo luogo un partito di popolo.
Come ho già detto, questa nuova dimensione di massa del “partito nuovo” è uno degli aspetti più rilevanti della politica togliattiana del dopoguerra. Su questo Gramsci in carcere e Togliatti in esilio avevano sviluppato una riflessione parallela, in gran parte grazie al patrimonio culturale comune che avevano accumulato dagli anni delle loro decisive esperienze politiche seguite alla Prima guerra mondiale, anni in cui si era reso palese e irreversibile l’ingresso delle masse sulla scena politica e dunque la necessità che si affermassero nuove forme e nuovi strumenti della politica e dell’egemonia.
Particolarmente rilevante era stato per entrambi vedere come in Italia il fascismo e la Chiesa cattolica si contendessero la organizzazione di queste masse, la Chiesa difendendo gelosamente la possibilità anche parziale di conservare i propri strumenti di organizzazione e indottrinamento, specie della gioventù, anche durante il Ventennio fascista – grazie al Concordato del 1929. E il fascismo, fattosi regime in Italia dalla seconda metà degli anni Venti, con la creazione di un vasto insieme di istituzioni e organismi, quali le proprie organizzazioni corporative e sindacali, quelle giovanili e femminili, il dopolavoro per il tempo libero degli operai e delle classi popolari, ecc. Usando dunque le fondamentali leve dello Stato e del suo «apparato egemonico», come lo chiama Gramsci nei Quaderni.
Nell’ambito delle Lezioni sul fascismo che Togliatti tenne a Mosca nel 1935 per un gruppo di militanti della Terza Internazionale, in gran parte italiani, egli aveva dedicato molto spazio a questa società post-liberale che il fascismo e lo Stato fascista stavano organizzando, facendo scaturire da tale analisi persino l’indicazione, scandalosa per molti, secondo cui i comunisti dovevano lavorare in questa trama di istituzioni create dal nemico, perché lì stavano le masse, lì si poteva incontrare il popolo. Per citare Ernesto Ragionieri, che per primo a inizio anni Settanta ritrovò e pubblicò le Lezioni sul fascismo:

Togliatti individuava nel dopolavoro la «più larga delle organizzazioni fasciste», e ravvisava l’origine dell’ampiezza di questa organizzazione nella insufficiente attenzione prestata sul piano nazionale dal movimento socialista italiano ai pro¬blemi della ricreazione, ai bisogni educativi, culturali e sportivi delle masse. In questo fatto era da scorgere concretamente la capacità del fascismo di insinuarsi in tutte le crepe e in tutte le insufficienze palesate dalla tradizio¬ne del movimento operaio per inserirvi una iniziativa e una direzione reazionarie .

Per non ripetere gli errori del passato, dunque, il partito della classe operaia doveva preoccuparsi, come avevano dimostrato di saper fare il fascismo e ancor prima la Chiesa cattolica, anche della organizzazione del tempo libero, dove attraverso mille dispositivi si crea e si trasmette quel senso comune diffuso, a cui Gramsci nei Quaderni presta tanta attenzione.



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Alle spalle del “partito nuovo” che Togliatti costruisce in Italia a partire dal 1944-’45 vi sono tutte queste riflessioni ed esperienze. E vi è pure – come ho accennato – la lotta condotta da Gramsci e Togliatti negli anni Venti contro il settarismo di Bordiga, il fondatore e primo segretario del Partito comunista italiano, sostituito da Gramsci nel 1924 grazie al decisivo intervento del Comintern, con cui l’estremismo di Bordiga era entrato in collisione. Contro Bordiga, Gramsci e Togliatti avevano combattuto la decisiva battaglia per una ri-fondazione del Partito, con il Congresso di Lione. Era stato detto allora da parte della maggioranza gramsciano-togliattiana che aveva vinto il Congresso che il partito comunista doveva essere una parte della classe operaia, una parte delle classi subalterne, a esse legata da mille fili, e non un loro organo – staccato dalle masse, convinto di possedere una conoscenza e una scienza (quella che veniva dalla dottrina marxista, interpretata in modo economicistico) che lo rendeva – tale era la convinzione di Bordiga – di molto superiore a esse.
Come ho detto, questa linea del Pci, fissata a Lione, si era trovata bruscamente in contrasto con la “svolta” operata da Stalin e dall’Internazionale nel 1928-1929 – quella che avrebbe portato alla politica del socialfascismo e alla previsione sbagliata e illusoria di una imminente rivoluzione mondiale.
Togliatti, nell’occasione spalleggiato da due importanti dirigenti come Ruggero Grieco e Giuseppe Di Vittorio, nelle riunioni del Comintern sulla situazione italiana, aveva cercato di resistere alla “svolta”, aveva tentato di difendere l’insegnamento di Gramsci, la visione non settaria e legata alla specificità nazionale, «popolare» e non seccamente «proletaria» (come si diceva nel linguaggio un po’ cifrato del tempo), della «rivoluzione italiana», soccombendo però, anche per lo stato di necessità in cui si trovava il piccolo partito che guidava, costretto dalla dittatura fascista al carcere, all’esilio e alla clandestinità. Togliatti aveva tuttavia fatto mettere agli atti le convinzioni sue e dei suoi compagni del gruppo dirigente gramsciano del Pci, affermando:

È giusto o no porre questi problemi […]? Se il Comintern dice che non è giusto, noi non li porremo più; ognuno di noi penserà queste cose e non ne parlerà più; si dirà soltanto che la rivoluzione antifascista sarà una rivoluzione proletaria. Ma ognuno di noi penserà che non è affatto certo che ne avremo la direzione fin dal primo momento e penserà che potremo conquistarla solo nel corso della lotta […] abbiamo sempre detto che era compito del nostro partito di studiare la situazione particolare dell’Italia […] Se il Comintern ci chiede di non farlo più, non lo faremo più […] ma, poiché non ci si può impedire di pensare, serberemo queste cose per noi e ci limiteremo a fare delle affermazioni generali. Ma io affermo che questo studio deve essere fatto .

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Nei Quaderni del carcere Gramsci sottolinea un certo modo di concepire i rapporti che il partito deve avere con le masse, secondo l’esperienza che risaliva al biennio rosso 1919-1920. Nel Quaderno 3, § 48, infatti, Gramsci scrive che la direzione del gruppo ordinovista

non era «astratta», non consisteva nel ripetere meccanicamente delle formule scientifiche o teoriche: non confondeva la politica, l’azione reale con la disquisizione teoretica; essa si applicava ad uomini reali, formatisi in determinati rapporti storici, con determinati sentimenti, modi di vedere, frammenti di concezioni del mondo .

L’azione politica – ci dice Gramsci – non va confusa con la teoria, anzi con le disquisizioni teoriche (così care alle sinistre). Bisogna avere la capacità di parlare agli uomini «in carne e ossa» (altra celebre espressione gramsciana, usata nel 1921 a proposito degli operai sconfitti), parlare dei loro problemi concreti, cercare di risolvere i loro problemi concreti.
Non porre barriere teoriche: ad esempio lo Statuto del Partito comunista italiano, nel dopoguerra, approvato nel già richiamato V Congresso, non richiedeva l’adesione ideologica al marxismo, o al marxismo-leninismo, ma la sola adesione alla politica del Pci, con l’evidente intento di aprirsi così alle grandi masse cattoliche del paese, di comunicare con esse, di non escludere nessuno su base ideologica, ma di aggregare quanti più possibile sulla base delle rivendicazioni politiche, quindi delle risposte da dare ai «problemi concreti» delle persone «in carne e ossa». Anche per questo era stato costruito un partito di massa: per contrastare i cattolici sul terreno dell’organizzazione delle masse, come aveva detto esplicitamente in un famoso discorso del 1946, Ceti medi ed Emilia rossa. Proseguiva Gramsci nella nota del Quaderno 3:

Questo elemento di «spontaneità» non fu trascurato e tanto meno disprezzato: fu, fu indirizzato, fu purificato da tutto ciò che di estraneo poteva inquinarlo, per renderlo omogeneo, ma in modo vivente, storicamente efficiente, con la teoria moderna .

Questo paragrafo 48 del Quaderno 3 riveste grande importanza. Di sicuro Togliatti ebbe modo di meditarlo, anche perché era la sintesi della comune esperienza vissuta con Gramsci negli anni dell’Ordine Nuovo. Anche a partire da questi principi Togliatti costruì il partito nuovo, un partito di massa in cui si trattava certo di educare alla politica le classi subalterne, ma in modo concreto, non dottrinario, sapendo trovare le modalità adeguate non solo e non tanto della comunicazione politica, quanto della direzione politica delle masse, a partire dai loro bisogni, dal loro mondo, dal loro linguaggio certo, ma soprattutto dai loro «problemi concreti».
Nel dopoguerra, nel mondo di Jalta, diviso in due, la situazione appariva molto meno “aperta” di quella degli anni che avevano fatto seguito alla Rivoluzione d’Ottobre. Per tutte queste ragioni, credo si possa dire che Togliatti fosse, nel secondo dopoguerra, più cauto, più pessimista, più moderato di Gramsci – che pure scriveva prigioniero in un carcere fascista. Il comunista sardo non aveva potuto prevedere un mondo diviso in due e i ferrei condizionamenti che ciò avrebbe comportato.
In questa nuova situazione, Togliatti col partito nuovo cercò di impostare un rapporto pedagogico con le masse, il che rientrava nell’insegnamento gramsciano. Forse Togliatti non riuscì a fare fino in fondo quello che Gramsci indicava come necessario sulla scorta della terza Tesi su Feuerbach di Marx, quella che ricorda come anche l’«educatore» debba essere «educato», cioè come anche il partito debba imparare continuamente dalle masse. Ma questo aspetto non è assente nel Pci di Togliatti, dove proprio la forma di massa ed estremamente articolata del partito, la sua presenza capillare e ramificata nella società, era funzionale alla sua capacità di ascoltare e recepire i bisogni e le opinioni delle classi popolari.

* * *

Nella stessa nota 48 del Quaderno 3 che ho citato Gramsci prosegue con altre notazioni di grande rilievo, affermando ad esempio che bisogna saper partire dall’esperienza delle masse, dal senso comune, per trascenderlo, per fare avanzare le masse ed elevare la loro «concezione del mondo», per dare a esse una direzione sempre più consapevole, ma in un rapporto appunto dialettico, reciproco, come è indicato dalle Tesi su Feuerbach, che per Gramsci sono un testo fondamentale. Gramsci scrive infine, al termine della stessa nota 48:

disprezzare i movimenti così detti «spontanei», cioè rinunziare a dar loro una direzione consapevole, ad elevarli ad un piano superiore inserendoli nella politica, può avere spesso conseguenze molto serie e gravi .

Come si vede, non vi è qui alcun populismo ingenuo, o inteso in senso deteriore. L’elemento della «dimensione consapevole» è per Gramsci fondamentale e deve essere esercitato dal gruppo dirigente del Partito. Che non deve accettare il popolo come è, ma saperlo elevare, dice qui Gramsci (in altri punti dei Quaderni userà in senso simile addirittura la categoria di catarsi, come elevazione da un orizzonte economico a un orizzonte pienamente politico). Continua Gramsci:

Avviene quasi sempre che a un movimento «spontaneo» delle classi subalterne si accompagna un movimento reazionario della destra della classe dominante, per motivi concomitanti: una crisi economica, per esempio, determina malcontento nelle classi subalterne e movimenti spontanei di massa da una parte, e dall’altra determina complotti dei gruppi reazionari .

Queste parole sembrano scritte per l’oggi. Le classi subalterne e i movimenti di massa presentano le loro esigenze, i loro bisogni, in forme spesso sbagliate, confuse, contraddittorie, a volte reazionarie. Ma, prosegue il comunista sardo,

la realtà è ricca delle combinazioni più bizzarre ed è il teorico che deve in questa bizzarria rintracciare la riprova della sua teoria, «tradurre» in linguaggio teorico gli elementi della vita storica, e non viceversa la realtà presentarsi secondo lo schema astratto .

Gli schemi astratti, dunque, non devono imbrigliare l’azione politica. Tocca a quell’«intellettuale collettivo» che è il Partito, al gruppo dirigente consapevole, tradurre tutto ciò che si presenta in forma bizzarra e spuria nelle rivendicazioni e nei bisogni delle masse in una azione politica progressiva capace di spostare in avanti gli equilibri politici, proprio a partire dalla comprensione del nocciolo razionale che si trova nel guscio a volte persino reazionario delle proteste di massa.
Purtroppo non abbiamo oggi quel comunista di tipo nuovo, o «partito nuovo», quel partito di massa che è stato pensato da Gramsci e costruito da Togliatti (sia pure con qualche inevitabile tradimento che la traduzione, ogni traduzione, comporta). E va oggi del tutto ripensata la modalità con cui tentare di «educare», che non può probabilmente essere svolta negli stessi modi in cui tale compito era pensato ai tempi di Gramsci e Togliatti, se non altro perché viviamo in una «cultura del narcisismo» che la diffusione dei social media ha di recente rimodellato in termini nuovi. E ciò rende tutto più complicato e difficile.
Resta una indicazione di metodo preziosa: non disprezzare mai il popolo, i movimenti cosiddetti «spontanei», le donne e gli uomini «in carne e ossa». Non disprezzare i giovani, le loro esigenze, anche se a volte manifestate in modo confuso e sorprendente. Solo a partire da questo popolo reale (e non dalla ripetizione sempre uguale delle proprie convinzioni teoriche) la sinistra, le sinistre, sapranno ricominciare a essere protagoniste e vincenti nel difficile e per alcuni versi inedito scenario della politica contemporanea.


Guido Liguori Docente di Storia del Pensiero Contemporaneo all’Università di Calabria. Presidente della International Gramsci Society Italia .

Relazione scolta al Convegno : Effetto Gramsci : dal rinnovamento del marxismo al populismo contemporaneo. Universitad Complutense de Madrid 18-20 novembre 2019




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