1 TRANSUMANZE di Roberto Rubino .

G.M. Galanti, nel suo libro “Della descrizione geografica e politica della Sicilia (1792) osserva che: consagrando le migliori terre del suo regno al pascolo, si studiava di perpetuare il disertamento in cui l’aveva trovato e che più sano consiglio sarebbe stato ristabilirvi al tempo stesso la popolazione come cosa preziosa e di rendervi, come in Inghilterra, il cittadino pastore e agricoltore insieme. L’autore quindi, già alla fine del XVIII secolo, si rammarica dei favori eccessivi concessi alla pastorizia, un sistema che” non conviene che a popoli erranti e poco inciviliti”, doglianze che riguardano non soltanto i territori di piano, del Tavoliere, un’immensa campagna consagrata al pascolo, che sembra essere un pezzo della Tartaria ma anche l’Abruzzo”, di cui rileva le differenze rispetto alla Marca, dove i campi appaiono più ordinati e produttivi. Galanti apparteneva a quel gruppo gruppo di illuministi napoletani che prepararono la rivoluzione del ’99. Aveva soggiornato a lungo a Parigi, dove in quel periodo tenevano banco le teorie fisiocratiche di François Quesnay (1694-1774), secondo le quali la terra dovesse essere sfruttata al massimo e privatizzata. Non ci poteva essere spazio per le terre pubbliche, che erano la struttura portante del modello transumante. Non a caso, non appena a Napoli arrivarono i francesi, la prima cosa che fece Gioacchino Murat fu quella di abolire la Dogana della Mena (1806), la potente organizzazione statale che gestiva e regolava il flusso migratorio e il mercato della lana e del sale. Tanto per avere una idea del peso della transumanza in quel periodo, basti pensare che il 20% delle entrate del regno erano assicurate dalle tasse sulle pecore e sui prodotti: lana, carne e formaggi.

Non dimentichiamo che la gran parte dei re si erano arricchiti con le pecore o con la lana, che Dante era iscritto all’arte della lana, che il Monte dei Paschi di Siena nasce come istituzione che aveva il compito di gestire la fida pascoli, il pagamento e la riscossione dei fitti dei pascoli demaniali. Oggi invece, a distanza di un paio di secoli, una grande fetta del bilancio comunitario viene spesa per sostenere l’agricoltura e la pastorizia. Siamo passati quindi da un modello produttivo efficiente, dinamico che presidiava interi territori, che dava occupazione a migliaia di persone, che creava ricchezza e finanziava lo Stato, e che era esso stesso un fenomeno culturale, ad uno che chiuderebbe il giorno dopo se non fosse abbondantemente sostenuto dalla collettività.

 Nell’Ottocento la transumanza ed il sistema dei tratturi vengono smobilitati e, con l’arrivo dei velieri veloci, la lana cessa di essere un valore perché arriva dall’Australia lana più fine a costi stracciati. Fine della transumanza e della pastorizia. Ma con l’inizio del nuovo millennio, qualcuno si ricorda che forse da qualche parte esiste ancora chi transuma, si incominciano ad organizzare bivacchi notturni intorno al fuoco e dietro qualche mandria e fra un bicchiere di vino e un canto alla luna nasce l’idea di fare qualcosa per non farla scomparire. E siccome così fan tutti, perché non chiedere  all’Unesco di accettare la candidatura della transumanza come Patrimonio immateriale dell’Umanità? Manco a dirlo, l’Unesco accetta e da ogni parte del paese è tutta una festa e un complimentarsi a vicenda per il risultato ottenuto. Ma fu vera gloria?

Per prima cosa incominciamo a vedere perché la scelta del valore immateriale della transumanza. Secondo le regole dettate dall’Unesco, patrimonio immateriale è l’insieme delle tradizioni, espressioni orali, arti dello spettacolo, rituali, eventi festivi, artigianato, pratiche agricole, tradizioni che sono espressione “vivente” dell’identità delle comunità e delle popolazioni che in esse si riconoscono. Queste motivazioni ci fanno ben comprendere le ragioni dell’inserimento nella lista di gran parte dei fenomeni culturali della penisola: I pupi siciliani (2008), Il Canto a Tenore sardo (2008), il Saper fare liutaio a Cremona (2012), la Dieta Mediterranea (20013), Feste delle grandi macchine a spalla, i gigli di Nola (2013), La vite ad Alberello di Pantelleria (2014), La Falconeria (2016). Stiamo parlando di tradizioni, di attività culturali o agricole ancora in uso ma che fanno parte della cultura di una comunità e alle quali si vuole aggiungere un riconoscimento internazionale. In quanti, nel mondo conoscono il canto a Tenore della Sardegna, o il saper fare liutaio a Cremona e così via? Quindi, in tutti o quasi questi casi il riconoscimento Unesco è un valore aggiunto a qualcosa che esiste, è radicato sul territorio, fa parte del sentire comune di quella comunità ed è motivo di orgoglio per tutti. Pensiamo solo ai Gigli di Nola.

E la transumanza? Quanti conoscono la storia della transumanza, anche nei paesi o nelle aree dove ancora essa si pratica? Molto pochi e quei pochi fanno di tutto per impedirne la continuazione. Se nei secoli passati era sinonimo di ricchezza e prestigio, ora ha solo un’accezione negativa, la colpa degli incendi è del pastore, il pastore è un essere asociale, non è recettivo alla cooperazione (altro grande luogo comune degli anni sessanta del secolo scorso), le stalle emanano cattivi odori, gli animali non devono vagare sulla strada. E che dire poi delle leggi comunitarie sull’igiene. Improvvisamente, grazie a quelle leggi, il latte dei sistemi intensivi divenne di alta qualità mentre quello dei sistemi pastorali quasi fuorilegge. L’assurdo? Un paio di anni fa una grossa azienda laziale fece uno spot televisivo in cui si invitava il consumatore a consumare le mozzarelle bianche e non quelle gialle perché, queste ultime, erano fatte con acido citrico mentre quelle bianche erano perfette. Forse è tutta qui la sconfitta della pastorizia. Se gli animali vivono al pascolo, le erbe, non l’erba al singolare, ma le tante, tantissime erbe diverse che costituiscono l’ossatura della cotica erbosa trasmettono al latte una complessità aromatica e nutrizionale fra le più importanti e, come cartina di tornasole, un colore giallo, per la presenza di un alto contenuto di carotenoidi. Quindi, il massimo della qualità del latte e dei formaggi si ottiene con gli animali al pascolo. E se poi questi transumano, cioè inseguono le erbe fresche laddove queste sono, allora si avrà durante tutto l’anno un formaggio sempre di altissima qualità. Se invece l’animale è alla stalla e gli si dà da mangiare un fieno o un insilato fatto di una sola erba e una quantità di mangimi che supera sempre il 50% della razione, allora l’animale farà più latte, questo latte sarà più diluito e con un valore nutrizionale molto più basso. I formaggi saranno e sono anonimi, senza odore e senza gusto. Ma noi tutto questo non lo sappiamo, nessuno ha denunciato l’azienda che ha fatto quello spot, e se il formaggio è giallo avrà avuto qualche problema di ossidazione! Per la verità, sull’arco alpino, soprattutto oltralpe, c’è una cultura diversa, gli alpeggi sono meglio difesi e potenziati, c’è più cura per i formaggi e per l’ambiente. Ma nel centro-sud, cuore pulsante della vecchia e nuova transumanza, i pascoli montani sono imboschiti, occupati dalle erbacce, dai rovi, i ricoveri per i pastori sono fatiscenti, non ne parliamo dei locali di lavorazione del latte o di stagionatura.
SI capisce così perché la scelta del valore immateriale. Non conoscendo la transumanza, i suoi valori, le sue potenzialità, la sua storia, ci aggrappiamo al folclore, sperando così di attirare un po’ di turisti. Che sono i primi a non voler pagare un prezzo giusto per il formaggio prodotto da quegli animali che loro seguono o ammirano.

Ma quale è il valore materiale della transumanza e cosa si potrebbe fare?

La transumanza nasce con la domesticazione e l’avvio dell’allevamento. L’animale ha bisogno di mangiare e tutti i giorni si muove alla ricerca dell’erba (stiamo parlando di ruminanti). Nel clima mediterraneo il ciclo delle stagioni limita il periodo vegetativo a pochi mesi, 5-6 al massimo. Quando l’erba secca, occorre spostarsi sempre più in alto, perché con l’altitudine si ha una scalarità della vita vegetativa. Di qui la transumanza, movimento continuo alla ricerca di erba verde. Questo sistema alimentare che risvolti ha sull’animale e sul prodotto finale? A noi i medici raccomandano movimento, questi animali sono sempre in movimento, con risvolti sul benessere facilmente comprensibili.

Dall’erba, passano al latte e alla carne tutta una serie di molecole importanti sia per la salute dell’animale e sia per la qualità del latte e della carne. Le molecole responsabili dell’odore, i cosiddetti volatili, e cioè le aldeidi, chetoni, alcoli, i terpeni, quelle responsabili del gusto, in pratica quelle non volatili e cioè i polifenoli conferiscono al latte e alla carne una complessità importante. Il massimo che si può ottenere. E lo stesso vale per l’aspetto salutistico. Solo qualche dato. Il rapporto omega6/omega3, che la FAO raccomanda di tenere sotto 5, nel latte e nella carne di animali alla stalla arriva anche a 15 e difficilmente scende sotto 10; nei prodotti degli animali al pascolo è sempre sotto 1. Il Grado di Protezione Antiossidante, che negli animali alla stalla è sotto 4, negli animali al pascolo può arrivare a 20. Con evidenti risvolti positivi sulla capacità di protezione antiossidante che questi prodotti assicurano. Senza parlare poi della qualità dell’ambiente, delle acque e del suolo. Le cotiche ben pascolate hanno una fitta rete di radici, indispensabili per trattenere le acque e per la stabilità dei suoli.

Quindi, la transumanza ha ancora un grande valore materiale. Non dobbiamo inventarci niente, dobbiamo solo esercitare la maieutica socratica e tirare fuori le potenzialità che conosciamo molto bene.

Invece preferiamo, da una parte, ostacolarla culturalmente e burocraticamente e dall’altra salvarci la coscienza facendola diventare puro folclore. Il guaio è che ci sono riusciti.

Roberto Rubino Ricercatore del CRA, tra i maggiori esperti europei su latte e formaggi. Riferimento primario dell’ideazione del Metodo Nobile.

2 IL MODELLO LATTE NOBILE IN MESSICO di Miguel Galina

Miguel Araxatzel Galina Morales, Presidente di Latte Nobile Mexico,
Miguel Angel Galina, Università Cuautitlan UNAM di Città del Mexico e Jesús Beuaregard, Latte Nobile Mexico
Da almeno due decenni è in atto un solido rapporto di collaborazione fra Miguel Galina, dell’Università di città del Messico e Roberto Rubino del Crea di Bella (Pz). I primi lavori sulla qualità del latte risalgono al 2012 (Galina et al., 2012), quando è stato documentato l’effetto del pascolo con un’integrazione di urea a rilascio lento sul contenuto di grassi e acidi grassi volatili del formaggio di capre e, successivamente, quando è stato determinato l’effetto del pascolo sui livelli di omega 3 e sull’aroma del formaggio di vacca, dimostrando l’effetto della presenza di terpeni e polifenoli negli odori e sapori di prodotti lattiero-caseari (Claps et al., 2014).

Nel frattempo in Italia  Anfosc andava diffondendo il Latte Nobile. In Messico l’argomento salubrità degli alimenti è all’ordine del giorno a causa dell’enorme aumento dell’obesità. Lo sviluppo di alimenti funzionali che possono un ruolo sulla prevenzione delle malattie oltre che sul gusto e sull’olfatto del cibo, ci hanno spinto a diffondere il Metodo Nobile anche in Messico. In accordo con Anfosc, abbiamo condiviso il disciplinare e il piano di controllo delle aziende, e abbiamo dato il via a Latte Nobile Mexico. I primi incontri si svolsero in Italia, per approfondire l’argomento, per conoscere con il Comitato Scientifico Italiano e i regolamenti elaborati dagli italiani al fine di standardizzare i criteri per il Messico. A nome di ANFOSC Italia abbiamo presentato la nostra proposta e ci hanno dato i diritti per certificare Latte Nobile in Messico e in America Latina, collaboriamo dal 2014.

Nel 2014 è stato pubblicato il primo documento in Italia sul Latte Nobile come modello alternativo (Rubino, 2014) In questo libro, scritto in italiano, abbiamo presentato la proposta per la produzione di latte come alimento funzionale in Messico (Galina, 2014).  Nel corso dell’evento di presentazione, abbiamo lavorato con Anfosc per definire il disciplinare del Latte Nobile Mexico, disciplinare che è stato condiviso con Latte Nobile Italia all’inizio del 2105. Nel 2014 abbiamo avviato le procedure dinanzi alle autorità competenti messicane per registrare i diritti di Latte Nobile Mexico come associazione civile mediante un atto di registrazione dell’Associazione messicana di Latte Nobile AC. Dall’inizio del 2015 abbiamo acquisito i diritti legali per certificare le unità produttive con il logo Latte Nobile.


Nel 2015 Latte Nobile Mexico ha organizzato il Primo Forum su “Latte Nobile” con la partecipazione di ricercatori e produttori presso la Facoltà di Studi superiori dell’Università Nazionale Autonoma di Città del Messico. Il tema centrale era rappresentato dagli acidi grassi essenziali omega 6 / omega 3 su relazione e la loro importanza per garantire la qualità del prodotto per i consumatori (Galina et al., 2015). Nel 2017, Latte Nobile México, sponsorizzato dall’Università Autonoma Benito Juárez de Tabasco, ha organizzato il II Forum di “Latte Nobile” che ha avuto come tema centrale gli antiossidanti presenti nei prodotti da pascolo (Galina et al, 2017). In quell’anno abbiamo concesso le nostre prime certificazioni a 6 unità produttive. Nel 2018 abbiamo organizzato il terzo evento su Latte Nobile Mexico sponsorizzato dall’Università Autonoma di Querétaro.

Dal 2015 al 2019 abbiamo campionato più di 84 unità di aziende bovine con 6.707 campioni, 1.699 animali alla stalla e con concentrati, 2.994 animali al pascolo con integrazione di concentrati e 2.014 campioni di latte di mucca al pascolo senza integrazione.

 I risultati relativi al rapporto tra omega 6 / omega 3 sono riassunti nella Tabella 1.

Il grafico mostra che il rapporto omega 6 / omega 3 rimane inferiore a 3: 1 negli animali che sono tenuti solo al pascolo, indipendentemente dall’anno o dalle specie animali, mentre con una integrazione di concentrati (massimo 2 kg / mucca / giorno o 500 g / capra o pecora / giorno) il rapporto è superiore a 3: 1 e, nel 2017, con il maggior numero di allevamenti, era quasi 4: 1. Negli animali allevati in stalla, nel corso di quattro anni, il valore è stato sempre superiore a 5: 1. Nonostante il fatto che la relazione rimanga costante, il volume di omega 3 è diminuito nel 2017, probabilmente a causa dell’effetto diluizione discussi da Rubino (2018) o dell’effetto delle precipitazioni, poiché i foraggi contengono più acqua. I risultati comunque confermano quanto sia importante monitorare costantemente la qualità del latte e in particolare il rapporto omega6/omega3
Le prime certificazioni sono partite nel 2015, e sono state fatte, in via sperimentale, in collaborazione con i produttori di latte di Colima e Querétaro per verificare se i prodotti da pascolo soddisfano le caratteristiche pubblicate in Europa. Per avere una misura affidabile e non di parte, comprovata con elementi benefici per la salute, è stata attivata una collaborazione con il dott. Pedro Vázquez del Center for Research and Technology Transfer, del National Polytechnic Institute di Queretaro, in base a questo accordo la struttura  misurerebbe il profilo degli acidi grassi, in particolare il rapporto tra acidi grassi essenziali omega 6 / omega 3 che, per regolamento, dovrebbe avere un rapporto massimo di 4: 1.

Quale è oggi la situazione. Nel 2016 abbiamo aumentato il numero di ranch certificati a 25, nel 2017 abbiamo raggiunto 55 ranch interessati alla certificazione e aumentato la nostra presenza sul territorio nazionale. Infatti, nel 2015 avevamo aziende certificate in soli tre Stati: Querétaro, Colima e Guanajuato. Nel 2016, si sono aggiunti i produttori di Tabasco e Chiapas e oggi abbiamo anche allevatori di Oaxaca e Veracruz.

L’incapacità del settore di identificare nuovi percorsi, un diverso modello di sviluppo, la sua miopia culturale ed economica sono tali da lasciare il sistema intrappolato nell’ “alta qualità” quando invece sarebbe opportuno buttare via tutto e ricominciare da capo. Anche per i tecnici è difficile accettare che tutto ciò che sanno, che questi modelli, sebbene portino ad un aumento della produzione, ne diminuiscono significativamente la qualità degli alimenti ed hanno effetti dannosi sulla salute della popolazione. A questo punto sorge una domanda “etica”: i modelli dovrebbero aumentare la produzione e a costi inferiori o dobbiamo sviluppare nuove alternative che garantiscano alimenti funzionali per la popolazione?

Nelle nostre università siamo stati  preparati per aumentare i volumi di produzione, fondamentalmente con diete ricche di cereali (concentrati), con uso massiccio di stimolanti del metabolismo (come ormoni e antibiotici) che oggi sono stati vietati, in particolare in Europa e un uso del foraggio ampiamente fertilizzato e irrigato. Modelli questi che continuiamo a promuovere poiché i laboratori e l’industria zootecnica hanno i loro interessi e sponsorizzano tantissimo la ricerca. Gli scienziati si limitano a verificare, nel nostro paese, l’effetto di diversi prodotti, come gli ormoni (la somatotropina), che aumentano la produzione e si garantiscono che vengano pubblicati su riviste indicizzate e in questo modo migliorano i loro curricula, anche se ormai vi sono prove di danni alle cellule negli adulti.  Gli scienziati sono incoraggiati a pubblicare, non a risolvere i problemi del bestiame o della società e queste aziende promuovono i loro prodotti sponsorizzando la presenza di docenti a convegni internazionali come quello di Buiatria che vengono a darci nuove informazioni genetiche, nutrizionali o riproduttive, di nuove tecniche per produrre PIÙ latte, che sebbene sia sicuro (non produce malattie) è dannoso per la salute, perché ha un alto contenuto di acidi grassi saturi e basso contenuto di acidi grassi insaturi, particolarmente essenziali come omega 3 e omega 6 e basso contenuto di antiossidanti (Delgadillo e Cuchillo, 2015).

Verso il futuro: stiamo lavorando con ANFOSC Italia su altre tematiche di grande importanza per il produttore e il consumatore come il gusto e l’odore dell’alimento e, infine, come dice Roberto Rubino (2018), tutti scegliamo un alimento perché ci piace o non ci piace e l’aroma è determinato da metaboliti secondari che dipendono a loro volta dal livello produttivo dell’animale e dalla qualità della razione alimentare.
In questo contesto, circa dieci anni fa, il modello “Latte Nobile” è stato sviluppato prima in Italia, poi in Messico, un modello che ha permesso di ottenere latte che non è uguale allo scenario attuale, dove tutto è uguale e di scarsa qualità, ad eccezione del prezzo, che varia in base all’autostima di ogni marchio, ma che potrebbe offrire al consumatore un latte senza dubbio di qualità superiore. I risultati ci hanno dato ragione. È stato dimostrato che il consumatore, non tutti, ovviamente, ma quelli attenti agli aromi e ai sapori, lo accettano e lo studiano. Il vantaggio? I consumatori si aspettano che il latte riconosca il gusto del passato, i produttori ricevono un prezzo quasi doppio rispetto a quello del mercato.

E soprattutto i consumatori ne trarranno beneficio, perché non sono tutti uguali. C’è chi non si preoccupa del cibo, mangia tutto senza chiedersi perché. Ma c’è chi fa del cibo un tema culturale, un momento di riflessione e compiacimento. E ora il cibo costa così poco che pagare qualcosa in più non è affatto un onere per il bilancio familiare. E poi il cibo è cultura, viaggi, ricordi (Rubino, 2018).

Sebbene in Messico siano stati ottenuti risultati soddisfacenti nella certificazione dei ranch durante tutto questo tempo, è anche necessario dire che abbiamo avuto incoerenze nella permanenza dei produttori certificati, perché, sulla base dei loro commenti, si aspettano che l’adesione al Latte Nobile e la certificazione fungano da promotore dei loro prodotti nei mercati d’élite del Paese. Tutto questo viene fatto solo in parte. Noi veniamo dal mondo della ricerca e finora abbiamo fatto un grande sforzo per aumentare la comunicazione e la diffusione dei risultati scientifici. In collaborazione con le Università di Queretaro, Colima e Città del Messico abbiamo organizzato eventi e incontri per far conoscere l’importanza degli alimenti funzionali e abbiamo un sito web per diffondere le informazioni generate in questi forum. Comunque, questa scarsa fidelizzazione ci costringe a porci la seguente domanda: cos’altro può fare l’associazione Latte Nobile del Messico per garantire la permanenza dei produttori certificati?

Il motivo principale per cui i produttori hanno lasciato la certificazione Latte Nobile (al giorno d’oggi abbiamo 38 certificati) è perché non c’è stata un’importante diffusione della certificazione a livello nazionale e internazionale. La soluzione al problema potrebbe essere quella di aumentare le occasioni e le opportunità per informare il grande pubblico sul Metodo Nobile e sulla sua specificità.

Il prossimo 21 marzo a Napoli si terrà il Festival del Metodo Nobile. Una occasione per tutti, produttori italiani e messicani per incontrarsi, per discutere dei problemi e delle prospettive, per concordare strategie e programmi di lavoro. Il futuro di Latte Nobile è molto promettente poiché le tendenze globali si stanno muovendo verso queste tecnologie, il nostro compito è di aiutare a informarne il mondo.

3 PER UN APPROCCIO MEDITERRANEO ALL’AGRICOLTURA 4.0 SOSTENIBILE

di Alex Giordano

Come sostiene la FAO il cibo e l’agricoltura sono la connessione principale tra le persone e il pianeta e questo ne fa i due elementi-cardine per il raggiungimento di quei 17 obiettivi di sviluppo sostenibile indicati dall’ONU (SDGs), sui quali tutto il mondo si è mobilitato.

“As the prime connection between people and the planet, food and agriculture can help achieve multiple Sustainable Development Goals (SDGs)”.

L’agricoltura è il principale motore di cambiamento dell’ecosistema del mondo ed è allo stesso tempo la più colpita da questi cambiamenti.  Stiamo scontando gli effetti della Rivoluzione verde, nata con l’intenzione di salvare il mondo dalla fame grazie alla razionalizzazione e all’industrializzazione della produzione agricola. L’idea di aumentare i volumi di cereali per nutrire le popolazioni e consentire l’abbassamento dei prezzi attraverso la concorrenza, ha determinato la crisi dei piccoli contadini (i prezzi bassi hanno spinto ad ingrandire le superfici di coltivazione quindi a meccanizzare e a far subentrare le banche), inoltre sono aumentate le monoculture e di conseguenza i consumi di acqua, fertilizzanti e pesticidi. Ed ora l’agricoltura si trova concentrata in poche mani da cui dipende per i semi, per i concimi, per i mezzi agricoli e, sempre di più, anche per le nuove tecnologie (droni, sensori, ecc.). Certo, a fronte dei tanti problemi posti dal sistema alimentare convenzionale sarebbe folle concludere che questo stesso sistema, alle sue condizioni, non abbia avuto successo: l’aumento delle rese e quindi la disponibilità complessiva di cibo, rappresentata dall’ibridazione del mais e dalle successive tecnologie della Rivoluzione verde, non può essere negata. Ma questi successi sono basati su esternalità che non possono più essere sostenute.

In molti dichiarano che le tecnologie 4.0 sono necessarie per rendere sostenibile l’agricoltura ma attualmentel’Agricoltura di Precisione è un’agricoltura convenzionale, orientata al mercato e responsabile di molti dei problemi sociali, politici e ambientali che, si dice, dovrebbe invece contribuire pesantemente a risolvere. Come l’ONU ha recentemente riconosciuto, il capitalismo in quanto tale semplicemente non può continuare cosi. Né, quindi, l’agricoltura convenzionale può continuare in questa direzione.

La domanda è: cosa la sostituirà? Gli strumenti 4.0 possono -e devono- essere ripensati, plasmando le tecnologie in accordo con le esigenze reali delle persone e delle altre forme di vita. Ma a quali condizioni?

SERVE UN CAMBIO DI PARADIGMA

Le tecnologie intelligenti (IA, robotica, ‘Internet of Things, ..) possono svolgere un ruolo importante nel raggiungimento di una maggiore produttività e di una maggiore eco-efficienza. Tuttavia pare necessario considerare le implicazioni sociali che questi processi di grande cambiamento possono apportare. La questione, infatti, è come le società saranno modificate o ri-scritte nell’evoluzione di questi processi, considerando che stiamo assistendo ad uno slancio crescente dell’agricoltura 4.0, date le scelte degli Stati e quelle dei privati (secondo i dati dall’Osservatorio Smart AgriFood del Politecnico di Milano il settore dell’agricoltura 4.0 è cresciuto in Italia in un anno del 270%  per un valore di 400 milioni di euro)[1].

Alcune criticità appaiono, per esempio, considerando la blockchain per l’agrifoode le applicazioni Big data in Smart Farming. Molta enfasi, infatti, viene data ai sistemi di trust affidati alla blockchain che, di per sé, rimane uno strumento nelle mani di coloro che lo utilizzano, al di là del potenziale che può avere come base di partenza.

.. i vantaggi della blockchain si realizzano al meglio quando diversi partecipanti del settore si uniscono per creare una piattaforma condivisa. E questo implica che le regole del gioco non le può scrivere uno solo degli attori della filiera. In un sondaggio recente gli intervistati (appartenenti a vari settori produttivi ma tutti alle prese con l’implementazione di sistemi di blockchain) hanno risposto che il più grande ostacolo all’adozione di blockchain è l’incertezza normativa (48%), la mancanza di fiducia tra gli utenti (45%) e la capacità di riunire la rete (44%).[2]

Le catene di fornitura alle quali si può applicare la blockchain sono coinvolgono attori che hanno interessi molto diversi, per questo il gioco può funzionare se progettato in ottica  win win cioè se tutti gli attori della filiera ritrovano incentivi e vantaggi nell’essere parte del sistema: guadagni, sicurezza dei dati, rapidità dei tempi di esecuzione dei diversi processi, qualità e dignità del loro lavoro e dei loro prodotti,.. devono essere adeguatamente diffusi per l’intera rete di attori.

Allo stesso modo, l’uso dei Big Data (insieme a IOT, droni e altre tecnologie 4.0) in agricoltura sta causando importanti cambiamenti nei ruoli e nelle relazioni di potere tra i diversi attori, all’interno della catena di approvvigionamento alimentare. Il futuro dello Smart Farming può evolversi verso due possibili scenari estremi: 1) sistemi proprietari chiusi in cui l’agricoltore fa parte di una catena di approvvigionamento alimentare altamente integrata; 2) sistemi aperti e collaborativi in ​​cui l’agricoltore e tutti gli attori interessati che fanno parte della filiera, sono flessibili nella scelta dei partner commerciali sia per la tecnologia che sul fronte della produzione alimentare.

Si aprono molte domande alle quali servono risposte complesse e convincenti: di chi sono i dati? chi ci guadagna con i dati raccolti? che controllo hanno gli agricoltori del loro lavoro? che iniziative possono prendere gli agricoltori coi loro mezzi di produzione?…

La questione del 4.0 non è squisitamente tecnologica, è ancor prima legata alle scelte di modello e di paradigma socio-economico nel quale accogliere e far crescere l’innovazione.

UN MODELLO MEDITERRANEO DI AGRICOLTURA 4.0

Noi del gruppo di ricerca/azione Societing da anni abbiamo attivato la task force RuralHack per dedicarci ai temi dell’innovazione nel foodsystem, partendo da un lavoro non SU ma CON le comunità rurali facendo incontrarericercatori, scienziati e i vecchi maestri della terra; hacker, artisti e contadini; realtà rurali delle aree interne e centri metropolitani; il meglio dell’innovazione scientifica e tecnologica ed il meglio della civiltà contadina (vecchia e neo). L’ipotesi che stiamo analizzando e sperimentando è una via mediterranea di sviluppo, che considera innovazione tecnologica e sociale come parte dello stesso processo, dove il Mediterraneo -inteso come metafora, geografia e metodo- è l’orizzonte verso cui orientare e sperimentare l’innovazione.

Negli ultimi due anni, incontrando agricoltori -giovani e non- abbiamo fatto un lavoro di alfabetizzazione alle tecnologie 4.0 e, insieme, di ammaestramento delle tecnologie personalizzandone l’applicazione anche grazie alla possibilità di agire su formati aperti e soluzioni di retrofitting, cioè soluzioni 4.0 che hanno attualizzato macchinari già un uso nelle imprese e hanno consentito anche ai più piccoli imprenditori di affrontare i costi. La disponibilità di dati aperti – quindi accessibili a tutti – può ridurre i costi di connessione e di accesso alle informazioni rilevate da terzi: abbattere i costi di abbonamento e di licenza consente a fornitori e utenti di non restare esclusi. Abitualmente i piccoli agricoltori trovano opportuno potersi muoversi nel modo più agile, efficiente e risolutivo di fronte a un problema e la possibilità di combinare i dati aperti e quelli privati consente di attingere ad una gamma di strumenti di supporto che li abilitano all’accesso di  informazioni relative, ad esempio, a previsioni meteo, crescita delle colture, andamento dei prezzi di mercato o dati su epidemie e parassiti.

Per favorire i piccoli agricoltori e per supportare i processi collettivi di innovazione tecnologica è importante, a nostro avviso, creare soluzioni tecnologiche 4.0 a partire dai data commons: un sistema di gestione in cui i dati vengano intesi come bene comune. I data commons consistono in piattaforme o depositi di dati gestiti in modo comunitario, dove i dati sono liberamente disponibili a coloro che fanno parte della comunità. Le imprese di un territorio, insieme ad altri attori dell’eco-sistema, possono condividere progetti di intelligenza collettiva. In questo modo sono i territori (considerati in logica ecosistemica) a diventare vere e proprie piattaforme nelle quali è possibile: lavorare sulla qualità della produzione e della vendita con nuove connessione città-campagne; innovare la logistica delle merci; ripensare alle forme di consumo privato e istituzionale (riorientando acuisti pubblici per mense di scuole, ospedali, carceri, …); ridurre gli sprechi (attraverso la redistribuzione delle eccedenze e il riuso di scarti alimentari come compost per aziende agricole); trasformare i mercati in luoghi polifunzionali e di socializzazione; utilizzare le tecnologie 4.0 per favorire i network locali, la creazione di nuovi servizi (distribuzione, logistica, re-distribuzione delle eccedenze, ecc.), la diffusione delle informazioni sui prodotti, ecc.

Il modello mediterraneo privilegia, quindi, sistemi a rete e aperti (open source) che consentono di modificare e migliorare in modo libero le tecnologie favorendone impieghi originali[3]. Open software, open data e anche ricerca partecipata sono modalità che, a nostro avviso, favoriscono processi economici maggiormente sostenibili e redistributivi, con l’idea che i singoli e le comunità possano sviluppare insieme nuove forme di valore.La prospettiva mediterranea che noi proponiamo, quindi, mette in discussione i modelli estrattivi (delle risorse, dell’ambiente, dell’energia, delle comunità, dei dati…) e guarda, invece, alla redistribuzione del valore come occasione per una maggiore diffusione delle opportunità a vantaggio delle persone e delle comunità.

Se questi principi sono facilmente comprensibili, in realtà la loro applicazione pratica non è affatto scontata, a partire dalla necessità di far interagire tra loro soggetti che appartengono a comunità di pratiche molto distanti. Ci sono, secondo noi, alcuni condizioni abilitanti che possono rendere le tecnologie (anche 4.0) utili ai processi di innovazione sociale avendo impatti positivi sull’ambiente e l’economia: la prima è il cambio di paradigma socio-economico, al quale abbiamo fatto riferimento sopra; la seconda riguarda la creazione di ponti tra tradizione, innovazione, discipline, saperi, attori come strada che porta all’ideazione di percorsi e soluzioni non convenzionali e più sostenibili; la terza condizione abilitante è la creazione di alleanze tra diversi attori (istituzionali e non) che svolgano un ruolo di supporto (sulla formazione o per il coordinamento di momenti di co-progettazione); un ruolo di cerniera tra gli interessi del territorio (per esempio tra produttori agricoli e mense pubbliche); un ruolo di facilitazione nella condivisione di occasioni per esempio l’incontro con la ricerca e/o con soluzioni tecnologiche; un ruolo di diffusione della cultura della qualità del prodotto, della salute del cibo e della tutela dell’ambiente. Per il lavoro che stiamo portando avanti in Campania abbiamo eletto l’Università come la casa che riesce, più di ogni altra, a poter svolgere quel lavoro di Hub che gli consente di essere attore-chiave dei processi di cambiamento (oltre ad essere una piattaforma di co-costruzione e scambio di conoscenza) grazie all’esercizio di tutte e tre le sue missioni: la ricerca, l’insegnamento e la “terza missione” cioè l’applicazione e la valorizzazione della conoscenza per contribuire allo sviluppo sociale, culturale ed economico delle nostre comunità.

Stiamo facendo belle cose. Seguiteci.

Alex Giordano – docente di Social Innovation e Trasformazione Digitale dell’Università Federico II° di Napoli; direttore scientifico del progetto Rural Hack


[1] https://www.osservatori.net/it_it/osservatori/comunicati-stampa/smart-agrifood-boom-agricoltura-4.0

[2] Fonte: Blockchain per l’agrifood. Scenari, applicazioni, impatti (edizioni RuralHack )

[3] Nel far fronte alla complessità del contemporaneo è necessario adottare metafore nuove e quella della rete che è quella più adeguata ad “un’epoca nella quale siamo tutti connessi attraverso internet e… il modello gerarchico, centralizzato e animale, rivela i suoi enormi limiti”.

4 IL PRIMATO ESTETICO DELLA GASTRONOMIA MEDITERRANEA. Seconda Parte

di Gennaro Avano

Declinazioni gastronomiche delle arti visive

La constatazione di un declinare gastronomico delle Arti Visive nasce dall’evidenza epocale di una presenza sempre più rilevante della gastronomia all’interno di eventi promossi da enti che tradizionalmente si occupavano delle sole Arti Visive.

Il fenomeno che si determina palesemente nell’ultimo decennio è senz’altro l’esito di un lungo processo dettato da innumerevoli fattori, tuttavia abbiamo ravvisato lo strappo in una circostanza  ben precisa all’interno della parabola dell’azione artistica ed è quella dell’evento espositivo.

Attraverso un’ osservazione sulla dinamica  delle esposizioni di Arti Visive abbiamo creduto cioè di trovare lo snodo che configura questa possibile declinazione gastronomica dell’arte.

Una piega – forse – non inedita storicamente, che prende forma nel momento in cui gli operatori dell’arte si sono concentrati non più, non tanto, sull’analisi dei contenuti quanto sulla modalità dell’esporre e interfacciarsi con il pubblico, a scapito dei contenuti stessi.

Nel registrare quindi la trasformazione dei cosiddetti “vernissage”, nel corso degli ultimi decenni emerge chiaramente  una propensione dell’intenzione estetizzante che si sposta dall’oggetto da esporre al contenitore dell’oggetto, trasformando quindi l’evento in oggetto e valore unico dell’atto artistico.

L’evento sostituisce l’oggetto e il senso creativo-concettuale si concentra nella traccia antropologica da esso determinata. In questo processo, però, i cui  esiti coincidono con l’oggetto d’arte, si è vista presto  sorgere una conflittualità tra l’artista e il pubblico, riluttante ad essere considerato oggetto d’arte.

Il narcisistico complesso di superiorità dell’artista ha creduto di privare il pubblico del giudizio, cioè dell’unico strumento di cui questi dispone per relazionarsi con l’arte, e ha innescato una querelle che ha prodotto l’esito imprevisto di una delegittimazione dell’arte centrata sul pensiero dell’artista.

Alla provocazione degli artisti cioè è seguita una inattesa reazione del pubblico che, in luogo di favorire un ritorno all’autoreferenzialità dell’oggetto d’arte, ha cominciato a interessarsi alla gradevolezza dell’evento, a scapito dei suoi contenuti, fino ad eliminare, progressivamente, la necessità di un motivo che lo giustificasse, marginalizzando così l’oggetto d’arte e l’artista.

Un processo che nella misura in cui ridimensiona l’idea dell’artista “genio pensatore” attribuisce sempre più spazio al progettista di eventi (che un tempo fu “gallerista”) e, mostrando disinteresse per l’ oggetto proposto dall’artista, si concentra sul cibo, collante classico dell’evento.

Pertanto, se qualche decennio fa l’apertura di una mostra, il vernissage, era implementato da striminziti canapè oggi l’evento rispettabile promette sofisticati e trionfali lounge party.

Partendo quindi da questa mutata condizione, in cui il cibo assume il ruolo di protagonista, smettendo i panni della comparsa, si afferma la figura dello chef d’arte che, sostituendosi all’artista tradizionale, possiede e trasforma la materia, donandole nuove declinazioni estetiche e nuovi, inattesi, significati che incantano il pubblico. Un pubblico che, sia chiaro, vuole si farsi incantare ma senza perdere l’illusione di poter elevare o stigmatizzare col proprio giudizio[1].

Emerge, forse, proprio in questo passaggio l’anello più debole della già, storicamente, indebolita disciplina delle Arti Visive: la confusione che ha indotto il mondo dell’arte a far coincidere quella originale idea che la reazione del pubblico è  testimonianza del valore di una ricerca con il concetto che la reazione del pubblico potesse essere l’oggetto stesso della ricerca.

Pertanto, l’idea assunta dalle Arti Visive, di  una rilevanza dell’evento come oggetto culturale, imitando in tal senso una scienza sociologica (in cui l’attore –il sociologo- analizza, a volte provocando, le reazioni collettive), non può pretendere un riconoscimento diretto, proprio da quel pubblico che ha usato come strumento. Sarebbe come lo scienziato che, avendo usato una cavia per i suoi esperimenti, si  aspettasse benevolenza e apprezzamento dall’essere che ha –suo malgrado- torturato.

Così, il pubblico sempre più affezionato alla piacevolezza dell’evento quanto indisposto a tollerare la presunzione degli operatori estetici, ha -senza avvedersene- sostituito all’oggetto artistico che si celebrava con un convivio, un convivio d’arte centrato sulla gastronomia, una forma espressiva totale che mette da parte le Arti Visive tradizionalmente intese.

In verità tutto ciò potrebbe non significare la dipartita delle Arti Visive quanto la loro trasformazione.

Non sembra infatti sussistere la possibilità di sollevare scandalo affermando che gli chef d’arte possono tranquillamente ambire a occupare il posto che fu degli artisti visivi in ragione del fatto che le Accademie di Belle Arti hanno smesso da lungo tempo di formare artisti visivi rilevanti, artisti che attualmente provengono dagli ambiti formativi più disparati.

Questa esperienza dell’interludio gastronomico che da riempitivo diventa protagonista attraversa oggi la sua fase crescente approdando alla sfera della consapevolezza condivisa. Diventato perciò oggetto di discussione estetica, arricchisce di contenuti nuovi un genere pseudo-artistico chiamato lounge, nato come stile musicale di sottofondo, elevandolo allo status di vera e propria categoria dell’arte, per nulla superficiale(come ancora si tende a credere).

La rilevanza della componente gastronomica dunque non esclude del tutto le Arti Visive, l’una e l’altra continuano a convivere all’interno dell’evento. Ciò che è avvenuto è semplicemente un’inversione di ruolo.

Quanto viene progressivamente escluso, invece, è il protagonismo di una concettualità ardita che è sempre più estromessa dal dibattito del pubblico protagonista, sensibile all’oggetto estetico ma all’interno di un’estetica totale che gli ruota intorno, che è corollaria del proprio protagonismo: “se sono io a legittimare l’evento voglio esserne il protagonista”.

Non c’è evento senza pubblico; non c’è contenuto se non c’è condivisione col pubblico; non arte se non c’é legittimazione del pubblico; non c’é artista se non all’interno di ciò che il pubblico riconosce come categoria. In questo scenario dunque l’artista “incompreso” è uno stereotipo  fuori moda.

Non estinto quindi, il pensiero creativo muta il linguaggio adoperato per trasmetterlo poiché il linguaggio deve consentire la trasmissione della comunicazione; l’espressione gastronomica d’arte, a lungo considerata minore rispetto ad arte, musica e pensiero diventa un fulcro intorno al quale ruotano tutte e tre le cose.

A seguito quindi degli sviluppi sin qui descritti, nella temperie culturale del nostro evo che vede un ribaltamento, per molti stupefacente, lungimirante sarà colui che,  abbandonata la certezza del “noto”, sia in grado di comprendere il senso più profondo  di questa rampante materia artistica.


[1]          É avvenuto, per esempio, che all’importante kermesse di arte contemporanea “Documenta 12” di Kassel, nel 2007, non fossero invitati numerosi artisti noti (e sicuramente nessun artista italiano) ma, in compenso c’era l’allora notissimo chef Ferran Adrià, interpellato -appunto- in qualità di artista.

Gennaro Avano, Napoletano insegna al Liceo Artistico di Fermo. Artista visivo e musicista.

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