La notizia la si aspettava; ma ha lo stesso l’effetto di una sorpresa: una sventola che ti lascia svuotato e nel vuoto.

E poi il cervello riavvia, ma va per conto suo, senza riuscire a rimettere ordine, a riannodare le immagini e i suoni che si propongono in un flusso disordinato di cui sembra impossibile allineare il prima e il dopo o il trovare un filo che li leghi.

Ma i ricordi sono fotogrammi di un film interrotto: ti sei lasciato, e male, per un tempo infinitamente lungo; i percorsi che si sono separati rendendo vuoti di ricordi comuni gli anni lunghi venuti dopo “bloccano” il recupero del tanto che è stato comune…

Allora l’allineare caratteri su un foglio può essere l’unico modo per tentare di rimettere assieme la vicenda di una intensa comunanza rotta perché entrambi vittime di una parte sbagliata che ci eravamo imposti di recitare in quello che non era più il nostro comune teatro della politica.

Con Raffaele è stato una lunga, straordinaria, scopertura di quello scrigno che era, ricco di autenticità, umanità, convinzioni salde e forza per sostenerle.

Aurisicchio è stato un dirigente comunista a suo modo unico, del tutto originale, in questa nostra terra di Irpinia. In lui si coniugavano, assieme, due modi di esserlo, senza scissura o contrasto.

La sua è stata una generazione di militanti che ha scelto il PCI e l’impegno politico “cercando” il popolo, e spesso non incontrandolo. Lui al popolo reale, non una astrazione intellettuale, apparteneva ed era orgoglioso di appartenervi. Nella sua scelta c’era la naturalezza di collocarsi “da una parte” individuabile persino fisicamente: uomini in carne ed ossa, con i loro nomi, volti, storie ed esperienze di vita, che consciamente intendeva condividere. La politica perciò, prima che “utopia”, orizzonte a cui tendere, cammino per andare lontano, era innanzitutto strumento per dare soluzioni, era il partire dai problemi veri, concreti e attuali che assillano la tua gente cui dare risposte. E’ questo il nesso che lega le sue prime esperienze di dirigente, a Santa Paolina, il suo paese, concretato nel lavoro giornaliero di amministratore del Comune e di costruttore del partito con la Sezione, e l’impegno di funzionario politico a tempo pieno per organizzare “sindacalmente” gli artigiani, un ceto sociale, né pienamente lavoratori, né pienamente imprenditori. Un modo di essere dirigente cui è rimasto fedele sino all’ultimo. Un farsi dirigente che sa di antico, di un PCI che ha nella fabbrica, nei campi, nelle botteghe di sarti, calzolai, falegnami, nei cantieri i suoi “luoghi” e di dirigenti che da questi “luoghi” del lavoro emergono direttamente non per “rappresentarli” ma per esserne espressione diretta, immediata.

Di questo suo essere “parte” del popolo portava addosso la “scorza”, una sorta di vestito indossato orgogliosamente per tutta la sua vita, fatto del suo modo di vivere, di parlare, di intrattenere rapporti umani, di essere pienamente “dentro” i valori civili del suo popolo…

Ma la “scorza” ha anche a lungo occultato una solida cultura, soprattutto sui temi economici, conquistata con studio impegnativo, per dare risposte non banali, non superficiali alle questioni economiche, una curiosità intellettuale vivace verso il nuovo, soprattutto quello espresso dai giovani, una apertura al mondo, al di là di ogni angusto confine. Io credo che questa “scorza” lo abbia inizialmente danneggiato, ritardando in qualche modo una valorizzazione quale dirigente del PCI al livello delle sue doti e credo che sia da riconoscere soprattutto a Michele D’Ambrosio averne comunque compreso le potenzialità notevoli ed averne poi favorito la manifestazione in ruoli adeguati.

Raffaele ha così la sfortuna di vivere da protagonista di primo piano soprattutto la parte finale, la parte peggiore, della storia del PCI irpino, gli anni della “svolta” occhettiana, quelli del Pds, dei DS, delle lacerazioni anche umane che ne furono il corollario, e poi gli anni dei “cammini separati”.

A questo soprattutto pensavo, osservando, uno per uno, ai suoi funerali, il gran numero di compagni che non avevano voluto mancare l’occasione di dargli l’estremo saluto.

Consapevole della gravità della perdita c’era il suo popolo e tutti i suoi compagni. E’ stato come se le “schegge” che l’implosione del PCI aveva con forza centrifuga violentemente allontanato l’una dall’altra avessero tutte sentito il richiamo di un funerale, ultimo fatto politico di una storia interrotta, quella dei comunisti irpini.

L’affetto? Certo. La stima? Sicuramente.

Ma io, forse per la particolare sensibilità di essere stato parte di una rottura personale che peraltro lasciava tra me e lui un “non detto” pesante come macigno, ho respirato anche qualcosa d’altro.

La politica sa essere cattiva. E noi la cattiveria l’abbiamo esercitata e l’abbiamo subita. E la politica è diventata tra di noi davvero “cattiva” da quando la prospettiva del superamento del PCI è stata vissuta da una parte come una “liberazione” e dall’altra come “tradimento”.

Si potrebbe obiettare che quella di vivere come tradimento la diversa opinione del fino a ieri compagno di lotte sia una tara genetica che ereditiamo dallo stalinismo. Forse, ma solo in parte. E’ stato qualcosa di originale che ci portò ad uno scontro che è stata rottura personale, rancore, inimicizia sino ad ottenebrare le scelte politiche che abbiamo fatto. Ed è andato ben oltre quella fase; si è sedimentato diventando un modo di essere che, al minimo, ha portato a considerare “estraneo” qualunque compagno avesse fatto scelte diverse dalle tue.

Riflettevo, guardando quelle schegge riunite nello stesso luogo eppure tanto “estranee” fra di loro, se non siano stati vittime di una vera follia collettiva che, ottenebrandoci la mente, impedì da allora sino ad oggi, ogni tentativo di salvaguardare un minimo comun denominatore, e consentire il cammino comune possibile di fronte a pur vere, solide, innegabili divaricazioni.

Qualcuno allora, qui da noi, giustificò la scelta per i “comunisti del no” di entrare nel nuovo partito con due motivazioni: senza un partito di massa non c’è politica che possa incidere e che era meglio sbagliare subendo le scelte maggioritarie del proprio popolo che avere ragione, isolati e ininfluenti. Io fui del parere che la scissione di Rifondazione fosse un errore gravissimo per quanto legittimata da azioni degli altri chiaramente miranti a liberarsi di una “zavorra”… E Michele, allora, con saggezza, cercò di guidare una difficile convivenza.

E non ho mai compreso appieno perché sia venuto meno a tali convincimenti, assieme ai compagni che lo seguirono, Raffaele per primo, di fronte alla nascita del PD. Era questo chiaramente un errore gravissimo, una fusione a freddo tra diversi, che rischiava, come è stato, di esaltare i difetti e contaminare al ribasso.

Non aderirvi privava il nuovo partito di intelligenze, capacità organizzative quadri che avrebbero certamente inciso nel mitigare il compromesso, nell’evitare la contaminazione al ribasso che ha prima snaturato e poi reso minoritaria la componente di sinistra dentro il PD.

Divenimmo, in due corpi separati, due miserie: una sinistra snaturata da un lato e l’ininfluenza dall’altro e questa comune impotenza. Ma questo collocarsi in due angusti ridotti a difendere le magre posizioni ha alzato muri invalicabili, ha disperso parte delle scarse energie nello stupido “marcare” quel fazzoletto di terra che ci era rimasto, con l’incomunicabilità che diventa polemica sino all’insulto rancoroso…

No, non ci sono stati innocenti in questa vicenda, io come gli altri, primo degli altri. Tutti vi abbiamo in qualche modo contribuito essendo stati incapaci persino di tentare di “parlarci”.

Ecco, di questo avrei voluto discutere con Raffaele…

Mi ha frenato l’orgoglio. Poi la sua malattia prima, la sua scomparsa dopo lo hanno impedito.

E’ per me una ragione di ulteriore profondo dolore.

Lucio Fierro

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