Ma insomma, davvero il green deal è quello che sta colpendo le ragioni dei contadini e dei produttori della terra? C’è un conflitto tra chi lavora la terra e produce cibo e la battaglia contro i cambiamenti climatici e per l’ambiente?  Penso che la protesta diffusa dei produttori agricoli manifesti l’emergere di un malessere profondo che tocca la dimensione dei piccoli e medi produttori che vivono il loro rapporto con la terra sulla base di un equilibrio davvero precario.

Le guerre aperte ( anche per l’ostinata opposizione ad imboccare la via della pace ), l’inflazione, l’impennata dei prezzi dei derivati del petrolio per far muovere mezzi e macchine, i costi dell’esposizione finanziaria che si accompagnano a superprofitti per finanza e banche ( che questo Governo si è ostinato a non intaccare neanche simbolicamente ), hanno determinato negli ultimi due o tre anni, dopo la pandemia, una sofferenza per gli strati più esposti dell’economia come della società.

Ma questa contingenza esaspera una condizione di base che vede già questo mondo sotto la pressione delle filiere globali de cibo che tolgono valore proprio alla peculiarità del loro lavoro,  con una Grande Distribuzione Organizzata, terminale di quelle filiere, che spinge verso il basso la qualità nutrizionale del cibo e la remunerazione dei produttori . Con un peso nel determinare regole e distribuzione delle risorse a livello europeo come a livello dei singoli stati, dei colossi dell’agrichimica – controllori anche della proprietà dei brevetti dei semi – di cui Bayer-Monsanto è un emblema.

E’ questo modello di produzione di cibo, squilibrato peraltro verso il Sud del mondo con cui si è imposto un rapporto neocoloniale, che genera oltre un terzo di emissioni climalteranti. Ed è il peso di questo modello che sta sulle spalle del produttore agricolo: del piccolo massimamente, che anzi spesso non trova ragioni sufficienti di reddito e di funzione per andare avanti. Ma anche di chi proprio piccolo non è.

E su questa contingenza intervengono gli effetti evidentissimi dei cambiamenti climatici che già oggi, anche in Campania, riducono le quantità prodotto e comunque determinano un aggravio di costi.

Ciò che salta con la rivolta dei produttori agricoli è l’idea della Commissione Europea e di tutti i governi dei singoli paesi, Italia non meno degli altri – hai voglia di andare in piazza come fanno i ministri  del governo –  che si possa fare la transizione ecologica senza la conversione. E cioè, che si possa avere il taglio delle emissioni climalteranti prendendosela sostanzialmente con i ‘piccoli’ e ‘medi’ senza colpire gli interessi e il modello dell’agricoltura intensiva ed energivora. I ‘piccoli’ e ‘medi’ dovrebbero ben capire quindi che il nemico non è il green deal nè la questione ecologica. E che quindi è venuto il momento di immaginare un altro modello di produzione del cibo fondato sulla biodiversità, sul rapporto con la natura, sulla valorizzazione di uno straordinario patrimonio colturale e culturale, sul saper fare di chi la terra la lavora a cui devono andare il massimo delle attenzioni, dei supporti tecnici e della ricerca  e, scusate se è poco, il massimo delle risorse disponibili, che anche in Campania, in un modo o nell’altro, ritornano invece  sempre nell’alveo dei grandi gruppi mentre ai piccoli rimangono le briciole e le fatiche burocratiche snervanti. E il paradosso invece è che proprio qui, nella nostra regione, sono migliaia le esperienze di imprese agricole, di giovani, di contadini che esprimono rapporto positivo con la terra, la natura e il produrre cibo che invece se sostenute potrebbero diventare modello e sistema positivo. E non è un caso che il meglio di questo mondo si sia ritrovato con la Campagna Rigenera con una organica proposta di legge di iniziativa popolare regionale: esattamente per una svolta su questo terreno. Le sofferenze e le proteste di questi giorni ci dicono, ove mai ve ne fosse stato bisogno, quanto tutto questo sia urgente.

Gianfranco Nappi

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