Ho riflettuto in questi giorni per cercare di capire se quel che ci vede impegnati in Rigenera ha a che vedere con le ragioni di fondo del malessere di un mondo, quello agricolo, che in modo così intenso sta occupando in questi giorni l’attenzione di una bolla mediatica europea che alimenta la stessa mobilitazione e che probabilmente condurrà ad alcuni dei risultati richiesti. La reazione europea e l’accorrere dei Tuttofare e Tuttodire Ministri italiani in permanente campagna elettorale fa presagire questo. E dopo? Tutti contenti e si riprenderà come prima?

E qui viene un altro interrogativo.

Come è possibile che l’Agroalimentare, il settore a cui va, in un modo o nell’altro,  circa il 40% del Bilancio comunitario sia in una sofferenza grande?

Esplode un malessere che evidentemente ha radici profonde.

Intanto emerge una caduta di rappresentatività delle organizzazioni del mondo agricolo che traggono sempre di più la loro legittimazione non da chi dovrebbero rappresentare ma dal rapporto sempre più intimo con il Governo che, a sua volta, con i suoi Presidenti del consiglio, Ministri dell’Agricoltura e Presidenti di Regioni corre alle Kermesse agricole, a cominciare da quelle di Coldiretti.

L’elemento di fondo è invece la crisi di tutto un modello di rapporto con la terra e di produzione del cibo. Nonostante la massa di aiuti esso si regge su un equilibrio esilissimo. E questo equilibrio oggi è messo in discussione da diversi elementi insieme e nell’assenza di una via di uscita – che non si vede né delineata né perseguita dalle istituzioni come dalla politica, né elaborata dall’Accademia che invece, sempre di più da centro di libero pensiero è sempre più piegato alle logiche e agli interessi dei colossi globali dietro il paravento delle iniziative pubblico-privato….) –  spinge un sottofondo di disperazione nel quale si mischiano elementi giusti di insofferenza con domande di cambiamento così come elementi corporativi e di richiesta della prosecuzione proprio di quelle politiche che imprigionano oggi il produttore agricolo in un rapporto malato con il proprio ruolo e con la terra.

Un fattore immediato di rottura dell’equilibrio è dato dalle guerre aperte. Dagli effetti che stanno producendo a largo raggio e sulle linee di traffico delle merci.

Ad esse, almeno in parte, è collegata anche l’inflazione e il conseguente crescere dei costi dell’esposizione finanziaria in un settore dove i piccoli, e i medi, protagonisti già viaggiano sul filo della precarietà.

E’ ben evidente che tutti questi elementi appaiono non di breve periodo: e il paradosso reale è che invece di andare alla loro radice con l’impostazione di una rigorosa politica di pace e di sviluppo comune, si va verso la loro esasperazione con una politica di nuova confrontation globale.

Pesa poi la riduzione delle produzioni o comunque l’incremento dei costi derivante dagli effetti già visibilissimi dei cambiamenti climatici sulla coltivazione della terra che rende illusorio mantenere proprio quel modello di ricerca di rese sempre più alte per compensare margini sempre più esigui.

Mostra la corda in buona sostanza   l’idea di una transizione ecologica, per come è perseguita oggi a livello comunitario come a livello dei singoli stati, compresa l’Italia, che non intacca le ragioni di fondo dell’agricoltura e dell’allevamento intensivo; del complesso dell’agrichimica di cui Bayer-Monsanto e glifosato è emblema; delle filiere produttive globali che attraverso la Grande Distribuzione Organizzata premono sui produttori locali togliendo loro spazio e futuro; della diffusione dell’agricoltura di precisione e delle applicazioni che si traducono, in assenza di una azione supportata e critica, in un ulteriore grado di deprivazione e impoverimento del ruolo del produttore della terra asservito alla espansione digitale e senza strumenti per evitare l’esproprio di ricchezza, dai suoi dati frutto del suo lavoro, che i grandi della rete realizzano.

E’ questo modello di produzione di cibo che genera oltre un terzo di emissioni climalteranti. Ed è il peso di questo modello che sta sulle spalle del produttore agricolo: del piccolo massimamente, che anzi spesso non trova ragioni sufficienti di reddito e di funzione per andare avanti. Ma anche di chi proprio piccolo non è.

Poi solo alla fine arriviamo agli effetti delle prime misure della cosiddetta transizione ecologica il cui simbolo è diventato il taglio dei sussidi sui carburanti agricoli, che in vario grado i diversi paesi europei stanno adottando in linea con gli obiettivi del 2030 e 2050.

Tutta la politica agricola comunitaria non è riuscita fino ad ora a immaginarla e sostenerla un’altra agricoltura; una radicale conversione ecologica che si ottiene anche certo con il taglio dei sussidi al petrolio ( ma a tutti però ) ma poi con la capacità di politiche attive che accompagnino i produttori agricoli, li sostengano in questo passaggio verso una produzione di cibo ricongiunta con la natura.

Questo è il dato macroscopico che emerge da questa conflittualità diffusa e confusa: non si da’ la transizione ecologica senza ancoraggio sociale forte ed esplicito. Non si da’ transizione se non diventa conversione e cioè se non emerge, presente già nella realtà di tantissime esperienze, un nuovo e diverso modello produttivo e di rapporti sociali.  

La vera risposta è proprio questa.

A vedere bene, è proprio con questo tema che, a livello di una Regione, la Campania, e per la prima volta in Italia con questo metodo partecipato, si sta cimentando ad esempio RIGENERA, con l’idea di una vera e propria legge quadro, con iniziativa popolare, per la conversione ecologica della produzione e distribuzione del cibo. Un passo nella direzione giusta. Per il quale davvero vale la pena di moltiplicare impegno e sforzi di riuscita.

Gianfranco Nappi

L’immagine in evidenza è tratta dall’album del MUSA di Benevento

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