Siamo molto contenti di questa relazione con altre realtà del paese. E così, dopo l’Emilia Romagna sul Consumo di Suolo, approdiamo in Lombardia con questo importante momento di confronto promosso con ControPiede, giornale e blog online che raccoglie un qualificato novero di militanti della sinistra milanese e che tiene viva una ricerca sui nodi più critici del presente, e la CGIL che non solo ci ospita ma concorre attivamente alla discussione.
Insomma, davvero una bella occasione di ‘ricerca comune’ dalla quale potranno nascere ulteriori sviluppi: per noi poi, è un altro dei modi per declinare la Campagna Rigenera nella quale siamo impegnati insieme a tante realtà associative e di movimento.
Pubblichiamo qui il saggio introduttivo della discussione di Giuseppe Nardiello che ringraziamo anche per essersi fatto promotore primo dell’appuntamento insieme ad Alessandro Pollio Salimbeni , ad Alberto Motta e tutti i compagni della CGIL.
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Il Saggio introduttivo ai temi in discussione
Il mondo della policrisi
Viviamo in quello che è stato descritto come “il mondo della policrisi” [1] [2], una specie di tempesta perfetta nella quale si stanno verificando contemporaneamente molteplici crisi che si assommano e si rinforzano reciprocamente, ognuna delle quali diventa causa ed effetto delle altre, con un effetto moltiplicatore non lineare, e difficilmente prevedibile.
Il quadro complessivo è davvero travolgente: il cambiamento climatico che sta causando una frequenza e intensità di incendi, alluvioni ed di altri eventi estremi mai registrati in precedenza e che potrebbe rendere inabitabili vaste parti del pianeta (secondo alcune stime 3,5 miliardi di persone potrebbero essere costrette a migrare nei prossimi 50 anni [3]), la pressione demografica di 8 miliardi di persone (proiettata ad oltre 10 miliardi nei prossimi 50 anni) e di ben 70 miliardi di animali (allevati per la nostra alimentazione – con il consumo di carne in aumento del 14% nel decennio in corso) sulle risorse del pianeta, la crescente urbanizzazione (che oggi riguarda più della meta della popolazione mondiale), l’aumento dei movimenti migratori dovuti a fame, guerre, disastri naturali e squilibri sociali (110 milioni di profughi nel mondo, in aumento del 19% rispetto all’anno precedente), la distruzione di interi ecosistemi naturali, lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali, l’inquinamento degli oceani (nei quali il peso delle plastiche è ormai quasi pari a quello dei pesci [4]), dell’acqua dolce e del suolo (da pesticidi, sostanze chimiche industriali e contaminanti organici [5]) con la conseguente diminuzione di resa produttiva (oltre che effetti deleteri sulla salute umana e sviluppo di immuno-resistenza agli antibiotici), la riduzione della biodiversità e della diversità genetica delle piante da cui dipende la nostra sopravvivenza, la desertificazione (che minaccia fino a un terzo delle terre fertili [6]), l’aumento del prezzo dell’energia, delle materie prime, quindi dei prodotti finiti e del cibo.
Tutto ciò avviene in un contesto di forti tensioni internazionali, sommovimenti inaspettati [7] e guerre più o meno locali e durevoli [8], che stanno scatenando un sensibile aumento della spesa militare mondiale (per un totale di 2.200 miliardi di dollari – il 13% in più in Europa) [9], inclusi gli armamenti nucleari [10], e catalizzando un riassetto degli equilibri geopolitici globali, con l’affermazione di attori (e.g. Cina e i BRICS) che ormai mettono in discussione l’egemonia americana e occidentale e gli strumenti finanziari su cui si fonda (si veda il fenomeno della “de-dollarizzazione” delle transazioni commerciali) [8]. Il risultato è una situazione di instabilità dell’economia globale (in faticosa ripresa dopo la crisi pandemica del covid-19), con severi effetti inflattivi e recessivi anche nei paesi industrializzati e con tutti i possibili risvolti sociali e politici, e un ulteriore delocalizzazione dagli impegni per la realizzazione degli obiettivi della transizione ecologica.
Secondo le analisi dei ricercatori dello Stockholm Resilience Centre, ad oggi ben 6 dei 9 limiti che misurano la resilienza del pianeta sono stati superati [11], con una preoccupante accelerazione rispetto agli anni precedenti [12]. Gli effetti del cambiamento climatico sono già tangibili o collocati in un orizzonte temporale sempre più prossimo [13]. È tempo, dunque, di prendere atto della “scomoda verità” [14] e del fatto che già viviamo in un nuovo mondo [15]. L’Europa ed in particolare il bacino del Mediterraneo, al cui centro c’è come sappiamo l’Italia, da sempre considerati degli hotspot climatici [16], sono quindi destinati a subire negli anni a venire rilevantissime conseguenze [17]. Occorre pertanto abbandonare l’errata percezione che la crisi climatica possa impattare soltanto le esistenze degli “altri” o al più lambire quelle di noi europei e italiani, o anche che almeno le élite globali, a cui qualcuno potrebbe aspirare o illudere di appartenere (per merito o per fortuna), possano comunque superare indenni i cambiamenti epocali a venire.
La policrisi è infatti globale e strutturale. Essa può essere di fatto considerata una sola crisi, quella di “un mondo interconnesso e interdipendente in un modo mai sperimentato in precedenza, che combina vasto benessere materiale con radicali diseguaglianze, in bilico sull’orlo del collasso ecologico” [1]. Una crisi strutturale causata dal modello di sviluppo del capitalismo finanziario, basato sullo sfruttamento dell’uomo e della natura al fine di massimizzare il profitto, secondo un incessante processo di accumulazione che ignora gli impatti sul sostrato biologico e le “esternalizzazioni” [18] [19].
Questo è il motivo per il quale l’allarme da parte non solo di alcuni giovani attivisti ma anche della stragrande maggioranza degli scienziati più autorevoli incontra tuttora uno certo scetticismo di fondo o il palese negazionismo sulle cause umane o di sistema della crisi [20]. Infatti, per molti non è affatto facile riconoscere come insostenibile quel modello di sviluppo (e in qualche modo l’idea stessa di “progresso”), proprio quando esso sembra essere storicamente emerso vincente dalla competizione con altri modelli, quando esso è stato decantato come il migliore, anzi di fatto come l’unico possibile (il famoso “TINA”), e sembra ancora funzionante sulla scala della propria condizione personale.
Se poi si passa dalla presa di coscienza all’azione, si deve purtroppo riconoscere che finora molto poco è stato fatto rispetto alla gravità della crisi. Basti considerare come, anno dopo anno, siano stati ridefiniti gli obiettivi di sostenibilità, nel corso di conferenze internazionali monstre (le famose COP, o Conference of the Parties sul clima), organizzate anche da attori contrari al cambiamento e a decisioni che possano avete impatto sulle loro economia (e.g. gli Emirati Arabi Uniti che organizzano la prossima conferenza COP23 di Dubai), in cui gli Stati prendono impegni poco credibili già nel momento in cui sono sottoscritti, in quanto spesso presi con l’alibi mentale di poterli poi rimandare nel tempo, magari passando la patata bollente a una successiva amministrazione. Obiettivi, come quello sulle emissioni di CO2, definiscono nuove merci di scambio (i.e. i “carbon credits”).
La fine dell’abbondanza?
Circa un anno fa, il presidente francese Emmanuel Macron, nel cercare di descrivere la gravità della situazione, ha usato l’espressione “fine dell’abbondanza” [21]. Con ciò forse cercava di assolvere il suo stesso governo, e, più in generale, di evitare di mettere in discussione il modello neoliberista, di cui è un campione. Eppure, per buona parte della popolazione del mondo (e per un numero crescente di cittadini europei), oggi il problema non è tanto rappresentato dalla perdita dell’abbondanza (di cui magari non hanno mai goduto), quanto piuttosto dalla difficoltà ad accedere a beni essenziali (quali cibo, casa e salute), a causa delle crescenti diseguaglianze e alla non equa distribuzione delle risorse.
Si pensi al cibo [41] [42]. Nonostante la crescita della popolazione mondiale, il cibo che viene prodotto è in grado di nutrire tutta la popolazione (e anche un 50% in più). Eppure, si stima che 800 milioni di persone nel mondo soffrano la fame e 45 abbiano così poco cibo da essere gravemente malnutrite e rischiare la morte – una situazione in peggioramento [39]. Inoltre, alcuni paesi spendono una cospicua percentuale del reddito nazionale per comprare il cibo di cui hanno bisogno – una percentuale che per molti paesi varia tra il 36% (e.g. Egitto) e il 56% (e.g. Nigeria). Ogni aumento del prezzo del cibo, perciò, incide anche in modo notevole sulla capacità di questi stati di sfamare i propri abitanti.
In generale, le variazioni del prezzo del grano (o di altri cereali) dipendono da molteplici fattori: da shock climatici (come avvenne 1972 nel Kuban e in Ucraina, anche a causa della monocoltura basata su una varietà ad alta richiesta di acqua [6]), dal costo di energia elettrica e gas (l’agricoltura è una attività fortemente energivora in quasi tutte le sue fasi), dalla domanda di biocarburanti e di mangimi per animali (a cui sono di fatto destinate la maggior parte delle colture mondiali), oltre che dalle regole del commercio, da eventuali situazioni di guerra, e più ancora dalle speculazioni finanziarie [6].
Non deve poi sorprendere che la variazione del prezzo dei cereali sia dovuta a operazioni speculative. Il cibo è infatti diventato una merce come qualsiasi altra, il cui prezzo è determinato dagli scambi nelle borse di Chicago e Amsterdam, una commodity gestita con le regole e gli strumenti della finanza, hedge funds, derivati e futures. La scommessa sull’aumento del costo del grano può determinare aumenti del suo prezzo, consentendo guadagni agli investitori (operatori finanziari e gestori di patrimoni) ben superiore a quello di investimenti in altri asset. Un dato basta a misurare la divergenza tra economia reale e finanza: solo il 2% dei futures si conclude con un effettivo scambio di merce [6].
Questo è confermato dal fatto che, contrariamente all’opinione comune, l’aumento dei prezzi dei cereali avvenuto nel corso del 2022 (fino a due volte rispetto il prezzo del 2020) non è stato determinato dalla carenza causata dalla guerra. Infatti, la produzione mondiale di cereali (principalmente grano, mais e riso) nel 2022 è stata nella media degli ultimi anni [6]. Ed il grano dell’Ucraina (il cosiddetto “granaio d’Europa”) costituisce solo l’8% del grano prodotto a livello mondiale anche se rappresenta il 25% di tutto quello commercializzato. Infatti, con la significativa eccezione dei paesi africani e di paesi che, come l’Italia, hanno industrie di trasformazione per l’export, i fabbisogni sono per lo più soddisfatti dalla produzione locale [6].
Inoltre, è importante anche chiarire la questione del ventilato rischio che il blocco del grano ucraino potesse causare la fame delle popolazioni africane. Infatti, quando, in seguito all’“accordo del grano” (la “Black Sea Grain Initative”), il grano ha potuto partire sulle navi dai porti del Mar Nero, l’80% di esso è andato ai paesi ricchi per alimentare il settore zootecnico europeo, già ipertrofico e largamente sussidiato dalla Unione Europea (UE) [22], ed in particolare gli allevamenti intensivi, che contribuiscono per il 70% a 12% delle emissioni di gas clima-alteranti del settore agricolo [6]. Poco è invece andato ai paesi africani che dipendono dall’import di grano per il sostentamento dei propri abitanti (mediamente per il 40%, ma per alcuni paesi del tutto o quasi: Eritrea 100%, Somalia >90%, Repubblica Democratica del Congo >80%) [23]. Ed anche paesi, come Somalia e Sud Sudan, che erano in condizioni di carestia, ne hanno ricevuto solo il 3% [24]. Ecco un ulteriore esempio lampante di sperequazione – oltre che di cattiva informazione sulle reali cause della mancanza di cibo nei paesi più poveri.
Chi paga il cibo a buon mercato?
Occorre dunque porsi alcune domande. Chi beneficia dal sistema alimentare mondiale in cui i costi di produzione (e distribuzione) del cibo aumentano ma che comunque rende disponibile sulle tavole (almeno del “primo mondo”, almeno di una larga parte della sua popolazione) un cibo abbondante, di apparente grande varietà (anche se è vero il contrario [25]), ed a prezzi contenuti (almeno rispetto ai costi)? Chi paga il prezzo di un cibo “a basso costo” [19]? Su chi ricadono le esternalità di uno sfruttamento intensivo delle terre (e dei mari) e degli animali? Che relazioni vengono a determinarsi tra contadini, produttori, lavoratori e consumatori come conseguenza di una concezione produttivista ed estrattiva dell’agricoltura? Quale è l’impatto di questo modello di sviluppo sulla salute del pianeta e dei suoi abitanti? Quanto la sua non sostenibilità è diretta causa ed effetto dei cambiamenti climatici e dei suoi effetti, inclusi conflitti e migrazioni?
Un primo dato utile è che il 1% delle grandi aziende agricole utilizzano ben il 70% dei terreni mondiali (il 40% con estensioni superiori ai 1000 ettari) [6]. Questo determina una economia di scala con cui le aziende più piccole trovano difficile competere, e in cui anche per gli altri attori della filiera e per gli stessi stati nazionali è difficile confrontarsi.
Si deve poi considerare il dato del crescente accaparramento delle terre (land grabbing) [26] [27], in atto da oltre 20 anni. Diversi paesi dell’Africa, del Sudamerica e dell’Asia sud-orientale “accettano” di vendere o affittare (a prezzi irrisori) le proprie terre fertili (in quanto tipicamente il diritto fondiario di quei paesi le attribuisce allo Stato, ignorando il diritto secolare delle popolazioni che le occupano e ne fanno un uso sostenibile) [26], nella speranza di attirare capitali e contribuire allo “sviluppo” del paese, spesso senza esercitare alcun controllo e senza fornire trasparenza ed accountability. Si consolida così un modello di sfruttamento intensivo, basato su monoculture (imposte dalle multinazionali rispetto a quelle locali che vengono vietate) e un forte impiego di agrochimica e dispendio di acqua. Un modello che causa importanti esternalità ambientali e sociali, l’abbandono delle campagne e la crescita del sottoproletariato urbano, un cambiamento antropologico in cui i contadini diventano semplici braccianti, non più custodi del terreno [27] [28].
Un caso di land grabbing che forse è meno noto è quello delle fertilissime terre d’Ucraina. Già nel 2016 ben 2,8 milioni di ettari erano controllati da 10 multinazionali, mentre oggi si stima siano oltre 3,4 milioni se non addirittura 6 milioni) di ettari in mano ad aziende straniere e società ucraine partecipate da fondi esteri [29]. La moratoria sulle vendite, più volte richiesta dal Dipartimento di Stato USA, dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) e dalla Banca Mondiale, è stata abrogata nel 2020 dal governo Zelensky in previsione di un referendum nel 2024, che difficilmente potrà tenersi se guerra continuerà e che non potrà non tenere conto dei debiti di guerra accumulati a quel punto [29] [8].
È stato quantificato che il land grabbing riguardi 88 milioni di ettari di terreno fertile a livello mondiale, pari a 8 volte l’intera superficie del Portogallo o a 3 volte l’intera superficie dell’Ecuador [30]. Si tratta di un business colossale che infatti attira società multinazionali dai paesi occidentali (e.g. USA, Gran Bretagna e Olanda – e anche l’Italia), da quelli emergenti (e.g. Cina, India e Brasile), da quelli petroliferi (e.g. Emirati Arabi Uniti) o da paesi che operano come piattaforme offshore per operazioni finanziarie ed offrono condizioni fiscali molto vantaggiose (e.g. Malesia, Singapore e Liechtenstein) [30]. Esso può essere a buon diritto considerato come una nuova forma di colonialismo [28] [40].
Un terzo dato utile è che il processo di produzione del cibo vede coinvolti sempre meno attori: dalle sementi che sono controllate per il 58% da 6 aziende multinazionali, ai prodotti chimici e farmaceutici per l’agricoltura che sono controllati rispettivamente per il 78% e il 72% da 6 aziende – che sono poi le stesse che controllano le sementi [31] [25] – al commercio globale del grano controllato per 70/90% da sole 4 aziende [32].
Infine, si deve tener conto di un ultimo dato che riguarda direttamente l’Europa. Infatti la narrativa su una possibile crisi alimentare mondiale per la scarsità di produzione dovuta alla guerra, e quindi della necessitò di una “sovranità alimentare” (termine non a caso richiamato nel nuovo nome del ministero dell’agricoltura del governo Meloni), è di fatto servita a convincere i governi europei a sottoscrivere una Politica Agricola Comune (PAC) che ha esteso (sia pure “eccezionalmente e temporaneamente”) la superficie coltivabile a quelle zone che sono lasciate incolte o a riposo al fine di preservare la biodiversità dei campi e alle aree ecologiche essenziali alla sopravvivenza di uccelli e insetti impollinatori, già a repentaglio per l’inquinamento e le mutate condizioni climatiche. Questo sebbene l’Europa sia già largamente autosufficiente per molti prodotti agricoli [6] e in contrasto con gli obiettivi della transizione ecologica e alle direttive della strategia europea “Farm to Fork”, che prevederebbe entro il 2030 il dimezzamento dei pesticidi, la riduzione dei fertilizzanti chimici e degli antibiotici somministrati agli animali [6].
Senza aggiungere altri dati, si può concludere che un cibo abbondante e a basso costo per alcuni (anche se non necessariamente di qualità e salutare) è di fatto possibile solo perché le esternalità del processo di produzione del cibo sono oggi scaricate sugli altri attori della filiera, incluse le piccole aziende agricole, della trasformazione, della logistica, e della grande distribuzione organizzata (GDO), e nel contesto di forti sperequazioni e sfruttamento delle nazioni cosiddette povere (che in realtà avrebbero risorse naturali per essere ricche) e dei lavoratori (e.g. salari bassi, caporalato) [6] [19]. Siamo dunque ben lontani dall’affermazione di un cibo “sano, pulito e giusto” [33].
Che fare?
Il diritto all’alimentazione è uno dei primari diritti umani formalmente garantito a livello internazionale, come riconosciuto per la prima volta dalla “Dichiarazione universale dei diritti umani” del 1948 (all’articolo 25) [34], in seguito dalla “Convenzione internazionale relativa ai diritti economici, sociali e culturali” del 1966 [35], e dalla “Dichiarazione universale sull’eradicazione della fame e della malnutrizione” nel corso della Conferenza mondiale sull’alimentazione del 1974, e poi ancora in documenti successivi del Comitato sui diritti economici, sociali e culturali. L’”Agenda per lo sviluppo sostenibile 2030” [36] del 2016 ha fissato l’obiettivo “Zero Fame” con l’obiettivo di porre fine a tutte le forme di fame e malnutrizione entro quella data. Per quanto siano importanti anche le affermazioni di principio, è però difficile guardare questa serie di documenti astenendosi dal considerarle come un segno del fallimento nell’attuazione.
Più recentemente, è stata avanzata da Luigi Ferrajoli la proposta di ripensare il sistema dei diritti universali come definiti dalle convenzioni internazionali in un nuovo quadro giuridico [37], una vera e propria “Costituzione della Terra” che intende stabilire un sistema di limiti e vincoli ai poteri degli Stati e dei mercati globali ed affermare diritti realmente universali. Un progetto “utopico” (nel miglior senso del termine) ma non del tutto astratto, essendo già basato su una proposta di 100 articoli [38] [40].
Inevitabilmente molti diversi temi si incrociano quando si affrontano questioni legate al diritto fondamentale al cibo, all’acqua e alla vita, in un ambiente sano (in qualche misura anche per gli animali e le piante) e, per gli esseri umani, in un contesto di giustizia sociale.
Durante l’evento del 20 ottobre 2023, pur senza avere la pretesa di approfondirli tutti, speriamo possano emergere, grazie alla competenza dei partecipanti [42] [43] [44] [45] [46], alcuni contributi utili sulle possibili azioni politiche, a livello italiano ed europeo, che sono ormai non solo urgenti, ma ineludibili.
Giuseppe Nardiello
Riferimenti
[1] https://aeon.co/essays/the-case-for-polycrisis-as-a-keyword-of-our-interconnected-times
[2] https://www.ft.com/content/498398e7-11b1-494b-9cd3-6d669dc3de33
[3] Gaia Vince, “Il secolo nomade. Come sopravvivere al disastro climatico”, Bollati Boringhieri (2023)
[4] https://www.wwf.it/cosa-facciamo/pubblicazioni/inquinamento-da-plastica-negli-oceani/
[5] https://resoilfoundation.org/ambiente/fao-rapporto-inquinamento-suolo/
[6] Fabio Ciconte, “L’ipocrisia dell’abbondanza – perchè non compreremo più cibo a basso costo”, Laterza (2023)
[7] https://www.contropiede.eu/2023/08/22/il-giardino-e-la-giungla-2-la-maledizione-delluranio/
[12] https://www.stockholmresilience.org/research/planetary-boundaries.html
[13] https://www.ipcc.ch/report/sixth-assessment-report-cycle/
[14] “An Inconvenient Truth” https://www.imdb.com/title/tt0497116/ (2006)
[15] “Anthropocene” https://www.imdb.com/title/tt8399690/ (2018)
[16] https://www.eea.europa.eu/data-and-maps/figures/multi-sectoral-hotspots-of-climate
[17] https://www.ecmwf.int/en/about/media-centre/science-blog/2023/european-heatwave-july-2023
[19] Raj Patel e Jason W. Moore, “Una storia del mondo a buon mercato – guida radicale agli inganni del capitalismo”, Feltrinelli (2017)
[20] Stella Levantesi, “I bugiardi del clima – potere, politica, psicologia di chi nega la crisi del secolo”, Laterza (2021)
[23] https://www.fao.org/agroecology/database/detail/en/c/1507414/
[24] https://www.oxfamitalia.org/il-grande-inganno-sul-grano-ucraino/
[25] Fabio Ciconte, “Chi possiede i frutti della terra”, Laterza (2022)
[26] Stefano Liberti, “Land Grabbing – come il mercato delle terre crea il nuovo colonialismo”, Minimum Fax (2015)
[27] https://www.youtube.com/watch?v=sLQgZGHDh2s
[28] Alexander Zaitchik, “The New Colonialist Food Economy – How Bill Gates and agribusiness giants are throttling small farmers in Africa and the Global South”, The Nation, October 2/9 (2023) https://www.thenation.com/article/world/new-colonialist-food-economy/
[29] https://ilmanifesto.it/corporation-allarrembaggio-delle-terre-agricole-ucraine
[30] https://www.focsiv.it/i-padroni-della-terra-primo-rapporto-sul-land-grabbing/
[32] http://www.ipes-food.org/pages/tippingthescales
[33] Carlo Petrini, “Buono, pulito, giusto”, Slow Food, 2016
[34] https://www.ohchr.org/en/human-rights/universal-declaration/translations/italian
[36] https://unric.org/it/agenda-2030/
[37] Luigi Ferrajoli, “Per una Costituzione della Terra. L’umanità al bivio”, Feltrinelli (2022)
[38] https://ilmanifesto.it/luigi-ferrajoli-la-costituzione-della-terra-entri-nel-dibattito-pubblico
[39] https://www.vita.it/2023-moriranno-di-fame-45-milioni-di-persone
[40] https://www.youtube.com/watch?v=XbKvFsnXTAQ
[41] Piero Bevilacqua, “Un’agricoltura per il futuro della Terra. Il sistema di produzione del cibo come paradigma di una nuova era”, SlowFood (2023)
[42] Gianfranco Nappi, “Frammenti di storia delle civiltà del grano e del pane nel Mediterraneo e altri saggi sul cibo all’epoca della globalizzazione”, Infiniti Mondi (2023)
[44] https://ilbolive.unipd.it/it/news/sullacqua-sua-quantita-sua-scarsita
[45] Valerio Calzolaio, “Ecoprofughi – Le migrazioni forzate di ieri, di oggi, di domani. Dove erano, come sono, quanti saranno i profughi ambientali e climatici”, NdA Press (2010)