Michelina Cassese, una vita trascorsa nelle carceri come operatrice sociale, attività che oggi continua come volontaria, ci ha inviato questo contributo sui recenti fatti di Napoli e Caivano, occasione per un ulteriore allargamento della riflessione.

Alla fine degli anni ‘70 e nei primi anni ‘80, prima che scoppiasse in maniera così cruenta la guerra fra clan camorristici nel napoletano, nel carcere di Poggioreale, accanto ai soliti malavitosi: contrabbandieri, estorsori, mafiosi, ecc., vi erano tantissimi giovani tossicodipendenti che spesso, per procurarsi la “roba” diventavano ladri, rapinatori. Erano i figli di quella classe operaia, di cui parla Nino Ferraiuolo, di San Giovanni a Teduccio, Barra, Bagnoli, ecc. cacciata dal lavoro di fabbrica per una deindustrializzazione senza alternative. Il filo rosso che teneva vivo nei padri il senso di una vita forse mediocre ma onesta, del rispetto delle istituzioni (come degli insegnanti nelle scuole), delle regole del vivere civile in comunità, della solidarietà di classe sociale, si andava sempre più indebolendo; la chiusura delle fabbriche con la conseguente incertezza economica aveva creato tanto disagio e irrequietezza e anche un po’ di rabbia: sono di questo periodo in città i reati politici.
Le madri all’epoca andavano al colloquio sperando che il carcere potesse interrompere quella devastante dipendenza dalle droghe e con la speranza che i figli riuscissero in tal modo a salvarsi e a non diventare nuova manovalanza per la camorra. Cercavano fuori, anche se con difficoltà, opportunità alternative.
Se in carcere si organizzava una manifestazione pubblica si faceva fatica a trovare giovani detenuti disposti ad “esporsi” e qualcuno negava l’assenso alla necessaria liberatoria.
Adesso in carcere ci sono i nipoti (o perfino i pronipoti, vista la giovane età dell’utenza) di quella classe operaia. Portano tutti la barba lunga, camminano a testa alta e sono in competizione tra loro. Hanno commesso reati anche gravi e non per procurarsi la droga ma sotto il suo effetto.
Le loro donne che vanno a colloquio introducono in carcere, a volte maldestramente altre con grande astuzia, grossi quantitativi di droghe e qualche cellulare. Altri arrivano dall’esterno con droni.
Durante le manifestazioni pubbliche, adesso più numerose, i giovani detenuti fanno a gara nel mostrarsi alle telecamere, chiedono di essere ripresi e fotografati.

Perchè racconto tutto questo?
Perchè da queste brevi descrizioni emergono due concetti fondamentali; primo: la disgregazione civile e morale di una parte di questa città (o meglio delle sue periferie) è dipesa dall’impoverimento di una classe operaia che fino a qualche decennio fa riusciva a vivere in maniera dignitosa. Un impoverimento che è andato ad aggiungersi all’endemica, assoluta e storica indigenza del sottoproletariato urbano partenopeo.
Altro fattore scellerato è stata la deportazione post terremoto di interi nuclei familiari dal centro storico di Napoli al nulla dei quartieri dormitori.
Così il traffico di droga da fenomeno di supporto si è trasformato in economia essenziale per il sostentamento di quei nuclei familiari, un tempo solo giovani, adesso anche non più. Da qui e non da altro dovrebbe partire la riflessione per una qualificazione (e non certo bonifica) della popolazione per esempio di territori come Caivano.
Anche gli istituti penitenziari sono diventati redditizie piazze di spaccio e la scellerata norma che nel 2020 ha reso reato l’utilizzo in carcere dei cellulari ha fatto lievitare i prezzi del traffico illegale di tali apparecchi.
Di conseguenza, la carcerazione dei congiunti adesso è diventata fonte di guadagno e purtroppo di sopravvivenza dei familiari, a loro volta utilizzati dalla camorra che continua a fare welfare.
Secondo elemento: la cura spasmodica di questi giovani della propria immagine. Più ti mostri determinato, arrogante, più emergi tra i tuoi pari, non importa se per meriti umani ma solo per ferocia, più ti senti realizzato. E per questi giovani criminali, come per tanti altri ragazzi nei nostri paesi occidentali, i cattivi maestri sono state le TV spazzatura (e non credo le fiction che parlano di camorra ma altro) e i social violenti.

Il sedicenne che ha ucciso il giovane Giovanbattista Cutolo probabilmente è uno di questi figli: dell’impoverimento dell’ambiente sociale dove egli ha le sue radici, anche familiari, di una educazione prima che civile, affettiva, inadeguata, dell’appartenenza ad un gruppo di pari irresponsabile, violento, spietato, ecc.
La proposta di abbassare l’età per l’imputabilità dei minori (che oggi è fissata ai 14 anni) è probabilmente la proposta più miope e anacronistica ascoltata in questi giorni.
Andar via da Napoli?
Resta questa una scelta individuale, sicuramente condizionata da esigenze di realizzazione lavorativa o di vivibilità quotidiana, oppure dal profondo dolore per una perdita; è una scelta amara ma che va sempre compresa, rispettata.

Michelina Cassese

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