Gianfranco Nappi con il suo libro Frammenti di storia della civiltà del grano e del pane nel Mediterraneo (Infiniti Mondi, 2023), propone una rilettura di questa produzione dall’origine dei secoli fino al presente, in cui non solo arricchisce la conoscenza della storia di questi elementi base dell’alimentazione umana, ma evidenzia anche la problematica del ruolo dei grandi gruppi industriali che dominano produzione e distribuzione dei prodotti alimentari.
Punto di partenza è la guerra russa di aggressione all’Ucraina, in cui le coltivazioni di grano diventano armi economiche di un conflitto a tutto campo, così come prima il petrolio, in cui non solo si manifesta un disprezzo per le vite umane e per il patrimonio storico-architettonico ucraino, ma anche per l’intera umanità che si vede negata, la possibilità di poter usufruire di questa fondamentale risorsa alimentare.
Come afferma Piero Bevilacqua nella sua prefazione, protagonista del libro è il grano, scelta braudeliana della disciplina storica come elevata espressione conoscitiva e culturale della cultura mondiale.

La storia del grano si evidenzia come una lettura storica fondata sulla geografia di porti e del commercio internazionale sin da epoche precapitalistiche e il libro di Nappi la ricostruisce con certosina pazienza, evidenziando il ruolo del Mediterraneo sede e mezzo degli scambi, antesignano delle future globalizzazioni. Siamo in un’epoca antecedente al contributo di David Ricardo sul vantaggio comparato nella produzione di un bene, quando il suo costo-opportunità nel produrlo è inferiore a quello di altri Paesi. Eppure, anche agli albori della storia, il commercio internazionale di prodotti agricoli come il grano, consente ai paesi colpiti da carestie di poter disporre di tale risorsa alimentare. I porti ne rappresentano l’infrastruttura di base per poter svolgere questo scambio, mezzo economico per i tempi più rapidi di consegna, se paragonato alle infrastrutture stradali ancora carenti. Il Mediterraneo ne è la via principale, cui al grano si uniranno riso e mais provenienti dal Nuovo Mondo, contribuendo anche alla diffusione della loro coltivazione. Miglioreranno l’alimentazione umana, anche velocizzando la produzione del pane.
Il libro non è solo incentrato sulla storia del grano e del pane, poiché analizza anche le mutazioni nell’alimentazione umana e gli effetti negativi che, con l’affermarsi del capitalismo e della sua logica estrattiva, produrrà nei secoli successivi la rottura del legame tra l’uomo e il suo ambiente naturale, succhiandone energie e risorse. È la logica delle produzioni intensive, sia agricole sia zootecniche, dietro cui imprese produttive invadono terreni di pesticidi e fertilizzanti, così come di antibiotici gli animali, distruggendo la biodiversità. Mettono capo ad un cibo spazzatura (Junk Food).


Il mercato agro-alimentare è profondamente cambiato, con pochi e grandi conglomerati che controllano il mercato dei semi come quello dei pesticidi, agendo anche, con la loro grande forza economica in termini lobbistici sui diversi governi per ottenere leggi favorevoli alle loro attività. Così come attivano logiche speculative sui prezzi, anche attraverso il ricorso ai futures attraverso scommesse sul prezzo futuro, immagazzinando il grano in attesa dell’ascesa del suo prezzo.
Il libro non limita la sua analisi alla storia del grano e del pane ma, nella seconda parte, pubblica dei saggi brevi sul cibo all’epoca della globalizzazione. Parte con il caso delle nocciole, principale materia prima per la Ferrero, che per rifornirsene mette sotto contratto anche piccoli produttori, indicando la tipologia e le dimensioni. Una richiesta che se da un lato offre garanzie di vendite certe del prodotto, dall’altro tende a ridurre le diverse varietà di nocciole di cui è ricco il nostro territorio. Un modus operandi già visto in atto per altri prodotti tipici, come nella Mozzarella di Bufala Campana, dove le grandi imprese di distribuzione hanno proposto a caseifici locali contratti in cui il prodotto andava modificato per allungarne la durata e tagliandolo con macchinari e non manualmente come da tradizione, per avere una pesatura standard. Stravolgendo però il suo disciplinare che ha ottenuto in Europa il marchio DOP.
Questo rapporto tra globale e locale, nel suo caratterizzarsi con modifiche produttive e del lavoro impegnato, secondo Nappi, modifica l’idea che un prodotto è buono se naturale e non geneticamente modificato, se coltivato in sintonia con l’ambiente e rispettoso del diritto del lavoro. Come ci ha insegnato Giacomo Becattini, l’appeal internazionale dei prodotti tipici deriva dal loro legame con il territorio di produzione di cui è espressione di tradizioni produttive radicate nella storia. Questo legame è un elemento di successo se la produzione avviene rispettando il territorio di appartenenza e la sua salubrità. Altrimenti, come nel caso della Terra dei Fuochi o del grande inquinamento del fiume Sele, l’immagine di un territorio inquinato diviene uno stigma, un’immagine negativa, che rischia di danneggiare lo stesso prodotto, in particolare sui mercati di esportazione più lontani, poiché l’informazione è asimmetrica e costosa e i consumatori risolvono il problema togliendo il prodotto dal paniere suoi consumi.


Lo sviluppo territoriale deve necessariamente basarsi sul potenziamento di una “coscienza di luogo”, come consapevolezza delle fragilità territoriali, del rispetto della salubrità del territorio e dei diritti del lavoro impegnato. Diversamente, legandosi acriticamente a grandi multinazionali di distribuzione, si riuscirà, forse, ad incrementare temporaneamente le vendite, ma alla lunga la spinta delle grandi multinazionali ad incrementi produttivi, con il rischio della perdita delle caratteristiche organolettiche dei prodotti alimentari, unite all’inquinamento ambientale e al ricorso a lavoro irregolare, mal pagato e senza diritti, produrranno un negativo effetto di ritorno, con potenziali effetti distruttivi sulle produzioni locali.
Il libro di Nappi rappresenta non solo un’interessante ricostruzione della storia del grano e del pane, ma anche un buon contributo alla presa di coscienza dei limiti dell’inseguire un aumento acritico di una produttività non sostenibile che, alla lunga può produrre negatività territoriali, di produzione, ambiente e qualità della vita.

Achille Flora

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