Partendo dalla formazione delle prime Società di mutuo soccorso e dalla fondazione delle Camere del lavoro ai primi del Novecento nel capoluogo (1901) e a Nocera (1902), il libro ( Fernando Argentino – Piero Lucia, L’onda. Lotte sindacali nel Salernitano dal secondo dopoguerra ai giorni nostri, Prefazioni di Giuseppe Cacciatore e di Alfonso Conte, Francesco D’Amato Editore, Prima Edizione dicembre 2022, Euro 25. ), ripercorre la lunga e complessa storia delle lotte sindacali che hanno scandito l’evoluzione della provincia di Salerno, in particolare dagli anni della ricostruzione nel secondo dopoguerra fino ai nostri giorni, e consente così al lettore di comprendere quanto la società attuale, apparentemente così lontana dalla realtà del secolo scorso, sia invece legata da fili profondi all’impegno di uomini e donne che attraverso le rivendicazioni relative alla loro condizione di lavoratori hanno saputo dare un contributo importante al progresso civile della realtà salernitana. Il primo merito del lavoro di Fernando Argentino e Piero Lucia è quindi l’aver realizzato finalmente un’opera d’insieme su un tema sul quale si disponeva fino ad oggi solo di contributi, anche abbastanza numerosi e di buon livello, ma parziali e settoriali. Dandoci finalmente una visione complessiva gli autori hanno davvero colmato un vuoto nella bibliografia sul movimento contadino e operaio del salernitano.
Altro merito del libro è la capacità di inserire le varie problematiche e i diversi episodi di lotta rievocati nell’ambito della storia dell’Italia, superando così l’obiettivo parziale e ristretto che sovente caratterizza la studi di specifiche realtà locali. Qui davvero le vicende di Salerno e della sua provincia vengono viste come parte del più generale processo di sviluppo del paese, il che consente di coglierne sia le specificità sia gli aspetti che invece si ricollegano alle dinamiche complessive della storia dell’Italia repubblicana.
Punto di partenza non può che essere il problema contadino, assolutamente centrale per le sorti di un territorio nel quale l’agricoltura era l’attività nettamente prevalente, e la realtà delle campagne era caratterizzata ancora nel secondo dopoguerra dal predominio della grande proprietà, spesso assenteista, e da contratti agrari e pratiche di coltivazione rimasti fermi ad un passato ormai anacronistico.


Quanto fosse difficile superare questo consolidato blocco di interessi e di retaggi del passato è dimostrato dai risultati ottenuti nel salernitano dai decreti del comunista Fausto Gullo, ministro per l’agricoltura nel secondo ministero Badoglio (aprile 1944) e poi nei successivi governi fino al 1946. Com’è noto, la misura più incisiva prevista da quei decreti, ovvero la concessione di terre incolte o male coltivate a cooperative o a singoli inquadrati in altri enti, incentivò l’organizzazione del mondo contadino e lo stimolò a rivendicare la terra con metodi legali, ma da un bilancio del 1945 risulta che la provincia di Salerno fu una fra le meno coinvolte in questi fenomeni, giacché solo 125 ettari erano stati interessati dai decreti: sintomo evidente della forza della grande proprietà. Tuttavia anche nel salernitano i semi del rinnovamento nazionale diedero i primi frutti, e infatti vi fu un sensibile incremento dell’associazionismo contadino, premessa per la campagna di occupazione delle terre che coinvolse nel 1949 e nel 1950 molti comuni della provincia. La battaglia fu particolarmente aspra: intanto solo in un secondo tempo la provincia fu inclusa nella legge stralcio del 1950, e comunque l’azione di Carmine De Martino nella DC ottenne che rilevanti porzioni di territorio fossero scorporate e quindi escluse dalla riforma; inoltre fu necessario fronteggiare la volontà del governo di ridimensionare la portata degli interventi, che la DC intendeva utilizzare soprattutto per contrastare l’influenza delle forze progressiste nelle campagne, giocando sulla tipica ambivalenza della mentalità contadina, divisa fra gli impulsi del proletario sfruttato e la naturale aspirazione individualistica alla proprietà della terra. Queste contraddizioni spiegano l’immobilismo che segnò a lungo negli anni seguenti la situazione delle zone rurali, nelle quali furono comunque progressivamente abbandonate pratiche come l’alternanza fra cerealicoltura e maggese, incompatibili con una agricoltura moderna, e fu ridimensionata l’estensione dei terreni incolti destinati al pascolo per l’allevamento brado.


Un passaggio importante della storia sindacale, al quale il libro presta la dovuta attenzione, fu il «piano del lavoro» proposto da Giuseppe Di Vittorio al II congresso della CGIL (4-9 ottobre), e poi precisato nel febbraio del 1950 in una conferenza economica sindacale. Il piano intendeva far fronte alle difficili condizioni dell’economia, condizionata da una politica di rigoroso controllo monetario e creditizio da parte del governo, che impediva un significativo sviluppo dopo la ricostruzione e provocava un alto tasso di disoccupazione, in particolare nel Mezzogiorno. Il piano intendeva in particolare dare alle lotte operaie e contadine, al di là delle specifiche rivendicazioni salariali e di organizzazione del lavoro, una valenza di carattere generale, come impulso ad un ampliamento della base produttiva nell’ambito del sistema capitalistico vigente. Esso sarebbe stato poi di fatto superato in gran parte dallo sviluppo economico realizzatosi a partire dalla seconda metà degli anni ’50, ma aveva il merito di porre al centro della politica sindacale quel coordinamento fra le esigenze dei lavoratori impiegati e dei disoccupati che sarebbe stata uno dei nodi ricorrenti nella politica sindacale, e in genere della sinistra, per molto tempo ancora e fino ad oggi. Per ciò che concerne il Mezzogiorno, si poneva con forza l’esigenza di una industrializzazione, e proprio questa prospettiva provocò il dissenso di Fausto Gullo, convinto che il piano desse poca attenzione al mondo rurale e al Mezzogiorno in generale.
In ogni caso gli anni ’50 furono molto difficili per l’industria del salernitano, e il libro rievoca con puntualità i vari momenti di crisi e i protagonisti delle lotte che provarono a contrastare o quanto meno a ridimensionare gli effetti della chiusura di molte attività da tempo presenti nel territorio.
Una attenzione articolare è riservata nel libro alla lunga e intricata vicenda delle Manifatture cotoniere meridionali, le cui origini risalgono, com’è noto, al primo Ottocento, quando l’intervento di capitali svizzeri diede vita nella valle dell’Irno al primo nucleo dell’industria tessile salernitana. Argentino e Lucia ricostruiscono con precisione le varie fasi delle lotte sindacali e delle trattative a livello politico per far fronte alla crisi di questo polo storico, acquisito nel 1970 dall’ENI, fino alla chiusura definitiva alla fine del 1992. La conclusione degli autori è intrisa di amarezza: «gli accordi faticosamente raggiunti per insediare nell’area salernitana attività industriali sostitutive per compensare le chiusure degli stabilimenti di Fratte, Nocera Inferiore e Angri vengono totalmente disattesi: nessuno degli impegni sui nuovi insediamenti promessi dal Governo e dall’ENI viene rispettato!» (pag.216).


Uno degli episodi più drammatici delle lotte per il lavoro fu la rivolta di Battipaglia esplosa il 9 aprile 1969 a causa della chiusura di due aziende storiche, uno zuccherificio e un tabacchificio, di proprietà della SAIM (Società agricola industriale del Mezzogiorno), società fondata da Carmine De Martino, scomparso all’epoca da 6 anni. L’intervento della polizia per reprimere le proteste, che coinvolsero l’intera popolazione, metà della quale, fra dipendenti diretti e dell’indotto, era colpita dalla decisione dell’azienda, provocò due morti e circa 200 feriti.
Nel frattempo si era realizzato a partire dai primi anni ’60 il tentativo di dar vita a Salerno ad un processo di industrializzazione in settori diversi da quelli tradizionali, che erano legati alla trasformazione dei prodotti agricoli o alla realizzazione di manufatti artigianali tipici del territorio, come ad esempio le ceramiche. Questo fenomeno si inserì nell’ambito dell’ambizioso progetto della «grande Salerno», concepito dall’amministrazione del sindaco Alfonso Menna. Si ebbe così, nell’area individuata per accogliere questo sviluppo industriale, la presenza di fabbriche nei settori tessile (Marzotto sud), meccanico (Landis & Gyr), dei vetri (Pennitalia), degli accessori per il bagno (Ideal Standard), chimiche (Snia Viscosa) ed altri. Attraverso questa ed altre iniziative Salerno partecipò in qualche modo al boom economico. Argentino e Lucia, nel ricostruire le vicende delle varie lotte sindacali che interessarono questo polo industriale, mostrano con chiarezza i limiti strutturali di questi investimenti, motivati soprattutto dalla volontà di sfruttare i bassi salari, gli sgravi fiscali e gli incentivi garantiti dal governo. Questi insediamenti industriali conobbero una fase di ascesa fino alla metà degli anni ’70 quando la drastica riduzione di nuovi investimenti e la crisi delle imprese già impiantate portò ad un rapido declino della zona industriale salernitana. Il libro propone una ricostruzione attenta delle vertenze del sindacato a difesa dei posti di lavoro e poi delle estenuanti trattative a livello politico per garantire sistemazioni alternative per lavoratori e lavoratrici licenziati. Nel rendere conto delle lotte condotte dal sindacato nel salernitano il libro ha il merito di ricordare i nomi di tutti i protagonisti di quelle vicende, presentando per i più importanti delle piccole schede biografiche, particolarmente preziose, ma non trascurando anche tutti coloro che, in ruoli di minore rilievo, hanno dato il loro contributo all’organizzazione e all’azione dei sindacati.
Si realizzò in definitiva una politica di interventi speciali attuati di volta in volta per sostenere questa o quella azienda, che ha spesso provocato uno sperpero di denaro pubblico senza salvare, in assenza di un organico piano industriale, più volte richiesto dai sindacati, le attività produttive e i posti di lavoro. In questa condizioni anche l’azione dei sindacati ha dovuto ripiegare su una infinita serie di vertenze con il potere politico centrale e locale per tutelare i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici penalizzati dalla crisi. Particolarmente drammatica fu nel 1983 la liquidazione della Marzotto Sud che privò del lavoro più di mille addetti.
Netto è anche il giudizio del libro sulla prospettiva della «grande Salerno», che, mentre non si realizzava alcuna effettiva integrazione fra il tessuto della città e un polo industriale in gran parte piovuto dall’alto, si concretizzò in una espansione urbanistica, dominata, in assenza di un vero piano regolatore, da una sfrenata speculazione edilizia.
A partire da questi anni anche nella provincia di Salerno si fecero sentire gli effetti della globalizzazione, un fenomeno del quale gli autori mettono in luce uno degli aspetti più significativi della realtà campana: la formazione di una miriade di piccole aziende, per lo più a conduzione familiare, ed un uso spregiudicato del lavoro a domicilio, piccoli segmenti di filiere estese a livello nazionale ed anche internazionale che forniscono capi di abbigliamento ed anche prodotti dei marchi dell’alta moda con la flessibilità necessaria per seguire l’andamento del mercato e con retribuzioni molto basse, oltre che attraverso l’utilizzo di lavoro nero e non garantito.


Una data importante per la CGIL salernitana è stato il 29 marzo 1989, quando al termine di una manifestazione conclusa da Antonio Pizzinato, fu lanciata la carta dei diritti con l’esplicito intento di «dare voce e potere ai lavoratori delle piccole aziende, agli sfruttati del lavoro nero, agli stagionali, ai precari, agli immigrati, ai lavoratori soggetti a lavoro nocivo e pericoloso, ai portatori di handicap». Fu, come sottolineano opportunamente gli autori, un passaggio importante, che nasceva dalla consapevolezza dei profondi mutamenti intervenuti nella società globale, e quindi anche nella realtà economico-sociale della provincia di Salerno. Non vi erano più, al centro dell’azione del sindacato, solo la tradizionale lotta per il salario, per le condizioni di lavoro, per la tutela dell’occupazione, nelle nuove condizioni occorreva farsi carico di quei lavori sfruttati e marginalizzati creati dalla maggiore flessibilità ritenuta necessaria per rispondere alle sfide del mercato globale. Coerentemente a questa indicazione, nella parte conclusiva del libro, gli autori si occupano ampiamente della condizione dei lavoratori immigrati, impiegati nella raccolta dei prodotti agricoli, costretti a lavorare in condizioni di estremo sfruttamento e degrado e a vivere in vergognosi ghetti. Particolare attenzione viene dedicata anche alla grave diminuzione delle tutele per i lavoratori, che comporta non solo un peggioramento delle condizioni di vita ed una situazione di precarietà che rischia di diventare permanente, ma anche tragici effetti sui livelli di sicurezza, come mostra la curva crescente degli incidenti sul lavoro.
Da questa analisi Argentino e Lucia traggono precise indicazioni per gli sviluppi della lotta sindacale in una realtà profondamente mutata, nella quale ai problemi già presenti si sono aggiunte le drammatiche conseguenze della pandemia e della aggressione russa all’Ucraina: «Il sindacato deve […] assumere come obiettivo principale la costruzione di un rapporto di comunicazione ed una proposta per i lavori di povertà, per i tanti precari, i lavoratori immigrati, le commesse, i camerieri del week end e i riders, i lavoratori di Amazon e tutti quelli che sono governati dagli algoritmi, detonatori delle tante guerre tra poveri che si combattono in Italia nelle capitali della logistica italiana» (p.295-296).
Con questo il libro giunge alle problematiche di questi giorni, a partire dal contestato Jobs Act promosso dal governo Renzi per arrivare al non meno controverso Reddito di cittadinanza, e quindi al Piano nazionale di ripresa e resilienza, definito una straordinaria opportunità per l’Italia ma soprattutto per il Mezzogiorno. Per rispondere a questa sfida, che non può essere perduta, occorre che ci sia un netto salto di qualità nelle capacità progettuali ed amministrative degli enti locali del Mezzogiorno, le regioni innanzitutto, ma anche i comuni, anche per rispondere alla sfida che proviene dalla richiesta di autonomie differenziate da parte delle più ricche regioni settentrionali.
Terminata la lettura, che ha consentito anche a chi scrive di rivedere, come nei fotogrammi ingialliti di un vecchio film, i volti di decine di uomini e donne che sono stati a vari livelli protagonisti di tante battaglie, animate dall’aspirazione alla costruzione di una società migliore, si avverte netta la sensazione del profondo distacco della realtà di oggi rispetto ad un mondo che appare incredibilmente lontano. Nel ripercorrere l’attività della Cassa del Mezzogiorno, sempre in bilico fra aspettative di rilancio della società meridionale e spinte ad utilizzare le risorse per ottenere consenso politico, gli autori richiamano più volte, opportunamente, la categoria del meridionalismo, e certo colpisce quanto oggi quella corrente di pensiero risulti poco attuale in una realtà che appare sempre più frammentata e disgregata. In tal senso davvero il 1989 ha segnato una svolta nella storia, ed è forte l’impressione che non meno traumatica si rivelerà purtroppo la rottura determinatasi il 24 febbraio del 2022 con l’aggressione russa all’Ucraina. Gli autori, consapevoli di questa realtà, avvertono a ragione di non avere concesso nulla ai richiami della nostalgia per un mondo ormai lontano, ma di avere voluto ripercorrere una importante pagina di storia allo scopo di fornire un contributo essenziale «per una discussione e una riflessione proiettata alle necessità dell’oggi e del prossimo futuro». Non è questo un momento favorevole per chi voglia guardarsi indietro a riflettere su ciò che è stato.

Come ha detto con grande efficacia Adriano Prosperi, il nostro è «un tempo senza storia» (Torino Einaudi, 2021), una età di transizione che, nel clima ideologico-politico e culturale che ha caratterizzato lo scorcio finale del secolo scorso e l’inizio di questo, ha visto crollare, tranne che per gli aspetti scientifici e tecnologici, l’idea stessa di progresso e sembra avere smarrito perciò a bussola per orientarsi nel suo cammino. Ogni epoca guarda al passato attraverso le lenti che la realtà contemporanea le fornisce: la società di oggi vive immersa in un eterno, irreale presente, incapace di immaginare un futuro davanti a sé, e quindi anche di confrontarsi con il passato, proprio per l’impossibilità di dare un senso, una direzione al corso della storia. Sono queste le radici di quella perdita della memoria storica che spesso si individua come un aspetto negativo del mondo in cui viviamo. Dobbiamo essere grati quindi a Fernando Argentino e Piero Lucia per aver voluto misurarsi, a conclusione del loro lavoro, anche con questa prospettiva così difficile oggi, non rinunziando a proiettare gli insegnamenti e gli esempi che si traggono dalle lotte che hanno ripercorso verso i nuovi compiti che attendono, in una realtà completamente diversa, il sindacato e le forze progressiste.

Vittorio Criscuolo
Professore Ordinario di Storia Moderna presso il Dipartimento di Studi Storici dell’Università degli Studi di Milano



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1 commento

  1. una riflessione che a eboli ha visto confrontarsi esponenti di partiti che non ci Sono piu’ PCI DC PSI

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