In fondo la legge sugli appalti dovrebbe essere mera applicazione – tecnica, molto tecnica – della direttiva comunitaria europea, vigente già da nove anni con disposizioni invero alquanto stringenti. E magari sarà pure così in altri paesi dell’Unione, che avranno legiferato semplicemente recependo l’impianto normativo che essi stessi avevano contribuito a costruire in sede internazionale.
E invece non è così in Italia, dove a ogni rielaborazione del codice (nel 2006, nel 2016 e ora, nel 2023, tanto per parlare solo delle principali e più recenti) si scatena una rissa – sempre molto ideologica – tra due partiti alquanto trasversali, definibili con qualche approssimazione come il partito ‘semplificazionista’ e quello ‘rigorista’.


Non c’è in Italia chi non si lamenti del peso asfissiante delle burocrazie. Peso che, in materia di lavori pubblici e pubblici servizi, si traduce inevitabilmente in allungamento patologico dei tempi di realizzazione delle opere, proliferazione dei contenziosi giudiziari, scadimento della qualità dei prodotti finali, ricca produzione di ‘incompiute’, freno all’occupazione e alla crescita economica, incapacità di utilizzare in pieno le risorse economiche disponibili. E sono cose che fanno male al Paese.
Le burocrazie – preventive e in corso d’opera – interessano in ugual misura tutti i segmenti del lungo iter che porta alla realizzazione dell’intervento pubblico: dalla progettazione delle opere, che attende prima l’esaurimento delle procedure di affidamento e soggiace poi a un complesso e ramificato sistema di controlli settoriali di compatibilità; all’aggiudicazione dei lavori, scandita da immense produzioni cartacee o digitali degli operatori concorrenti e inesorabilmente esposta alla spada di Damocle dei contenziosi civili, contabili, amministrativi e penali; all’esecuzione delle opere, a sua volta minacciata da ritardi per imprevisti o difetti progettuali e dalle conseguenti varianti, anche queste assoggettate al ginepraio dei processi autorizzativi e al rischio di nuovi incagliamenti nelle aule dei tribunali.
Ma anche se le burocrazie, per loro atavica costituzione e per essere scarsamente conformate al principio della responsabilità del risultato, tendono a rendere più complessi di quanto la legge non voglia i percorsi amministrativi, resta fermo che il loro eccessivo potere frenante discende in primo luogo proprio dalla complessità e dalla scarsa intellegibilità delle norme.
Il tema della semplificazione dei percorsi amministrativi (quindi delle leggi) per la velocizzazione dei processi e il rilancio dello sviluppo economico del Paese è allora certamente un grande tema politico progressista, che però a Sinistra è stato sempre considerato con sospetto: vuoi vedere che semplificando (il che significherebbe – sussurra il sospetto – minore controllo pubblico) si va ad aprire la strada a corruzione, evasione e mafie varie in un paese che è storicamente afflitto, più di ogni altro Stato europeo, da questi flagelli? Molti preferiscono allora glissare sull’argomento, soffermandosi a declinare concetti e principi forse più politically correct (per battaglie poi puntualmente contraddette sia a destra che a sinistra, in nome del fare, quando si impugnano le leve del governo): per lo sviluppo sostenibile e le fonti rinnovabili, il contrasto al consumo di suolo, il contenimento della rendita urbana, il rilancio della pianificazione urbanistica e territoriale. Ma trascurano che tutte queste sacrosante battaglie rivendicano a loro volta azioni, fatti, decisioni senza le quali le aspirazioni più nobili sono destinate a restare confinate nel limbo delle astrazioni, ovvero delle sterili declaratorie di cui troppo spesso la politica di oggi si nutre.
Le disuguaglianze si combattono anche aumentando le occasioni di lavoro decorosamente retribuito, che difficilmente si generano se progetti e cantieri restano sospesi (talvolta fino a quando le stesse risorse economiche a essi destinate vanno perdute). Le fonti fossili si riducono se si incentivano le produzioni energetiche rinnovabili, ma molto di meno si riducono se gli impianti fotovoltaici o eolici sono bloccati o rallentati da una molteplicità di ostacoli difficilmente sormontabili. E la stessa declinazione burocratica delle forme di pianificazione partecipata delle scelte di governo del territorio tende a generare a sua volta una miriade di nuovi defatiganti procedimenti di controllo, oltre che resistenze da parte degli amministratori degli Enti locali. E quindi ancora rinvii, ritardi, immobilismo. Ecco perché la semplificazione normativa è progressista.


Invece succede che la bandiera della semplificazione sia impugnata dalla Destra – meno delicata di stomaco, evidentemente – che in materia di governo del territorio (come in quelle dei diritti civili o dell’immigrazione o del fisco o dei rapporti con l’Europa) ama esibire atteggiamenti muscolari: dagli improbabili blocchi navali alla ‘guerra’ contro le ONG, alla ‘cancellazione’ dei bambini omogenitoriali, ai diversi pugni battuti sui tavoli europei (il MES, le norme sulla concorrenza), alla cancellazione – appunto – delle gare per le opere pubbliche.


Va detto che formalmente il codice ‘salviniano’ resta nei limiti della direttiva europea sia quando abolisce definitivamente le gare fino all’importo di circa 3 milioni di euro (la soglia europea, appunto), sia quando dà il via libera ai subappalti a cascata. La vera novità (almeno sul primo punto) è che esso rende definitivo ciò che nei decreti dei governi, prima giallo-rosso e poi tecnico, appariva come provvedimento temporaneo, volto alla sola accelerazione degli interventi PNRR. E così la semplificazione è servita!
Ma quanto ciò sia illusorio lo si comprende appena si sfoglia il nuovo testo: per definire le soglie di rilevanza comunitaria (le stesse della direttiva europea) bastano tre commi dell’art. 14. Ce ne vogliono altri 26, di commi, solo per spiegare come va stimato l’importo degli appalti affinché si capisca se sono sotto o sopra soglia. E questa sarebbe la semplificazione così strombazzata? Piuttosto una scorciatoia ribalda, un ammiccare compiacente a chi di gare e libera concorrenza non ama sentir parlare (e non è il solo ammiccamento di questo governo, come è noto).
Succede dunque che molta Sinistra si autoconfini in un’opposizione ‘senza se e senza ma’, che però lascia intravvedere soltanto la difesa dello status quo di rigorismo (spesso intollerabile quanto inefficace) interpretato dall’ANAC, figurando questa Sinistra, agli occhi di un significativo segmento dell’opinione pubblica, come responsabile delle lungaggini e delle tortuosità burocratiche che la Destra annuncia di voler risolvere con un solo gesto.
E allora la domanda: è possibile che tra lo sbracamento e il cilicio non esista alcuna utile via di mezzo? Che il pensiero sia portato inesorabilmente da un riflesso pavloviano ideologico ad accomodarsi su uno dei due estremi senza uno scarto, una mossa del cavallo che consenta di accedere ai penetralia della costruzione burocratica, di capire davvero quali sono i meccanismi da correggere per facilitare percorsi trasparenti e concorrenziali di attuazione dei disegni pubblici di sviluppo?
Si capisce che i subappalti a cascata lasciano temere la progressiva perdita, salto dopo salto, di garanzie sul rispetto degli obblighi imposti all’appaltatore principale in materia di diritto ambientale, sociale e del lavoro. Tuttavia la norma comunitaria stabilisce (art. 71) che alle amministrazioni aggiudicatrici può essere imposto dagli Stati membri di estendere tali obblighi, ad esempio ai subappaltatori dei subappaltatori del contraente principale o ai subappaltatori successivi nella catena dei subappalti. Il che sembra delineare un’ottima strada (mica tanto di destra) per scongiurare abusi e irregolarità: basterebbe insomma vincolare tutti i subappaltatori in solido con l’appaltatore principale, al rispetto delle medesime regole.
E sulle procedure di aggiudicazione è evidente che la soppressione delle gare propugnata dalla Destra di governo (su almeno l’80% di tutti i lavori pubblici, secondo le stime) dà la stura a discrezionalità tali da comprimere severamente la libera concorrenza (senza voler parlare della libertà di affidare lavori ad amici e famigli degli amministratori). Ed è un fatto di inaudita gravità. Ma anche qui il cilicio sta nella difesa a oltranza dell’indifendibile guazzabuglio di regole presidianti gli affidamenti di appalti pubblici (con le loro procedure barocche per la valutazione dei ribassi anomali, con i lambiccati criteri di riconoscimento della convenienza economica nelle gare) alla cui inefficacia e farraginosità è sempre dato alibi dalla carenza e dequalificazione del personale disponibile alle amministrazioni aggiudicatrici, personale che tuttavia nessuno appare in grado di reclutare e formare.
Eppure esistono forme di aggiudicazione concorrenziale e trasparente consacrate addirittura dal regolamento per la contabilità generale dello Stato del 1924, che potrebbero essere facilmente attualizzate, in moda da rendere inutili le prolisse norme studiate per concentrare e qualificare le stazioni appaltanti, per scongiurare ribassi eccessivi e dannosi, per intervenire preventivamente su contenziosi e ricorsi. Forme che obbligano i concorrenti a convergere su ribassi ottimali già predisposti dall’amministrazione e che esonerano da ogni valutazione complessa e potenzialmente discrezionale dei requisiti tecnici da loro vantati.
Probabilmente approfondire questa linea di confronto (da opposizioni che abbiano a cuore la soluzione dei problemi nell’interesse generale) sarebbe un ‘qualcosa di sinistra’. E potrebbe essere un cuneo profondo nella sicumera che un governo di corte vedute esibisce grazie unicamente alla preponderanza della sua forza parlamentare.

Alfonso De Nardo

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