Almeno fino al 1 febbraio sarà possibile al Modernissimo di Napoli vedere la Giunta. Il prolungamento è risultato del pubblico che la proiezione continua a raccogliere. Fatto abbastanza indicativo di quanto il mondo e la storia che vi si raccontano sia stata parte intima della vicenda della città. Il Film ci è parso da questo punto di vista non solo bello ma anche disvelatore di sentimenti profondi che conservano un tratto di vitalità da cui ricavare più di una indicazione anche per il presente. A volerlo. Se vi andrà, siamo pronti ad accogliere le vostre riflessioni sul lavoro di Scippa e Di Nocera. Intanto, riceviamo questa da Michele Mezza.

“…..posso dirti che in generale le giunte comunali di sinistra degli anni ’70 e ’80 sono state caratterizzate da una forte enfasi sulla redistribuzione della ricchezza e sulla riduzione delle disuguaglianze sociali, nonché da una forte presenza del movimento operaio e dei sindacati nella gestione delle città. Le politiche di queste giunte hanno spesso comportato un aumento delle tasse per i cittadini più ricchi e una maggiore attenzione alle esigenze dei lavoratori e dei gruppi sociali più svantaggiati. Tuttavia, queste politiche hanno anche incontrato critiche per avere causato un aumento della pressione fiscale, una maggiore inefficienza nella gestione delle città e una diminuzione degli investimenti privati”.
Risponde cosi ChatGPT alla domanda :”dimmi cosa sai sull’esperienza delle giunte rosse in Italia dal 75 al 85?” tradendo non poche pregiudiziali ideologiche trasmessegli dai suoi programmatori che lo hanno indirizzato su fonti della storiografia anglo americana che poi traduce in Italiano.
Un giudizio complessivo che potrebbe risultare fin troppo indulgente per l’insieme di quella stagione progressista italiana, certamente per il caso napoletano, così come viene raccontata nel Film La Giunta, diretto da Alessandro Scippa.
Il regista come subito si presenta, è il figlio di Antonio, uno dei pilastri delle giunte rosse di Valenzi nella Napoli a cavallo del terremoto del 1980, da poco scomparso , per altro.
Inevitabilmente l’opera colma un debito di amore e riconoscenza del figlio per il padre, rendendo il lavoro molto, se non troppo, interno a queste circuito emotivo.
Molte le pennellate autoreferenziali del guppo di famiglia in un interno, e forse troppo parsimonioso l’uso di un materiale iconografico originale che avrebbe forse dato uno spessore storico maggiore.
Ancora più sacrificato esce il contesto politico di quella straordinaria stagione.
Nel decennio 75/85 l’Italia fu protagonista di un fenomeno che risulta ancora poco studiato dagli storici, e ancor meno metabolizzato dalla politica: l’avanzata possente e molecolare della sinistra, in un paese di cento medio subalterno ,martoriato dal terrorismo politico, e angosciato da una crisi economica locale, con un’alta inflazione, che aggravava un contesto globale colpito dalla prima crisi energetica, la guerra del Kippur.
In questo scenario tipicamente sudamericano, che vedeva ogni giorno salire la paura nelle città per lo stillicidio di attentati e omicidi, con ondate di licenziamenti e impennate dei prezzi, invece di rintanarsi in un riflesso d’ordine reazionario e autoritario, il paese, da Torino a Palermo, passando per tutte le grandi città come Milano, Roma, Napoli e Venezia, si apriva ad una stagione libertaria- il referendum del divorzio del 74- e progressista con la marea delle giunte rosse guidate da un poderoso PCI al cui vertice era l’astro di Enrico Berlinguer. Una vera rivoluzione attiva, potremmo dire rovesciando la nota citazione di Gramsci sui ceti moderati.


Una contraddizione per molti versi ancora inspiegata fra una dinamica minacciosamente golpista e una risposta sociale palesemente riformatrice, che richiamava in Italia studiosi e analisti di tutto il mondo per comprendere appunto il cosi detto caso Italiano.
La trama forte che reggeva la crescita democratica del paese, nonostante le oscure manovre destabilizzatrici interne e esterne, era costituita quella congiunzione virtuosa e proficua fra un movimento operaio maturo e radicale, che trovò nella comunità studentesca un medium per parlare all’intera società, arrivando a suggestionare figure e settori di alta professionalità .
Le fabbriche, dalla Fiat alla Siemens, all’Alfa Romeo, al complesso degli elettrodomestici, all’ancora possente filiera siderurgica , la vera spina dorsale sia dell’apparato industriale nazionale che della società civile che si raccoglieva attorno alle ciminiere che punteggiavano lo stivale da Pordenone a Genova fino a Piombino, Napoli e La Sicilia, erano presidio democratico e scuola di una nuova idea di democrazia che si chiamò consigliare. Oltre le mura delle officine, si ramificava nel territorio una cultura di liberazione che combinava l’emancipazione delle forme di vita, a cominciare dalla riduzione degli orari e dall’autonomia individuale sul lavoro, industrie a visioni culturalmente sofisticate che smembravano le confraternite professionali borghesi aprendo varchi di libertà nella medicina, con Giulio Maccacaro, nella psichiatria con Franco Basaglia, nell’informazione con il gruppo di giornalisti e tipografi del Corriere della Sera, nella stessa Magistratura, con i pretori d’assalto.
Una spinta alimentata da vene profonde della realtà italiana come l’apertura conciliare nella chiesa cattolica, che dai primi anni 60 cominciava a sgranare i grumi conservatori che ancora guidavano la cultura cattolica.
Più si sparava più l’Italia guardava a sinistra, segnatamente al PCI, per rinnovare la sua pelle di paese poroso che, esaurita la stagione democristiana, ormai attraversava la fase industriale e già percepiva le prime ebrezze terziarie.
In quel processo le città divennero laboratori straordinari di culture e di esperienze amministrative.
I sindaci furono i testimonial di un nuovo modo di vivere più che di gestire il territorio.
Argan a Roma e poi il popolarissimo Petroselli, Rigo a Venezia, Aniasi a Milano, Novelli a Torino, Zangheri a Bologna, e appunto Valenzi a Napoli, rappresentarono gli emblemi di una svolta in cui le culture locali prevalevano per la prima volta sul brand del partito, imponendo stili di vita politica del tutto inediti.
A Roma con Nicolini si aprì la stagione dell’Estate Romana che ruppe la plumbea cappa di timore imposta dal terrorismo, A Milano si sperimentavano le prime forme di economia municipale con le prime multiutility che sfidavano i monopoli privati su gas, luce, acqua e soprattutto le attività culturali della città. Torino non era più hinterland della collina agnelliana ma diventava la città del lavoro della Fiat e Napoli, con la Giunta che viene rievocata dal film di Scippa, si liberava dal giogo di Gava e del malaffare, dopo il sussulto del colera nel 72, in cui il PCI divenne società civile , organizzando l’assistenza sanitaria.
Questa straordinaria stagione, che ancora trova il modo di prolungare in molti casi la sua fertilissima storia ai giorni nostri, non venne adeguatamente analizzata e discussa.


L’avanzata elettorale, nel 76 il PCI sfiora il primato della DC di primo partito italiano, e in alcune di queste città, come appunto Napoli, esplode fino a superare il 40%, segno di una pervasività e attrazione che arriva ad ogni latitudine della comunità metropolitana sfondando in una realtà ,come quella partenopea ,che non è stata mai, ne prima ne dopo, istintivamente, a sinistra. Un trionfo che rifluisce già mentre si festeggia l’avanzata, con la prima frenata del 79, dopo lo shock del caso Moro, a livello nazionale e le successive regressioni locali negli anni 80 che ci portarono poi al fatidico 89 della caduta del Muro di Berlino e dell’avvio dello scioglimento del PCI.
Cosa accadde ? Perché un partito che solo qualche anno prima conquista il primato, superando la DC, alle Europee del 1984, e soprattutto è ancora l’architrave della governabilità concreta dei cento campanili che formano il bel paese , si contorce nei complessi di colpa del fallimento sovietista fino ad estinguersi oggi? Perche con Breznev al Cremlino i notai e il ceto moderato era attratto dalla falce e martello e poi con la terza via che parlava inglese neanche i militanti sembrano interessati alle sorti di quell’eredità?
Le domande che ci ripetiamo ormai da almeno 6 lustri acquistano una innovativa vitalità se le caliamo proprio nei laboratori : perché a Roma, Torino, Venezia, Genova, Bologna, Napoli e Palermo le esperienze locali che a volte sono state appannate da inconcludenza, spesso da velleitarismo, qualche volta macchiate da corruzione, crollano quando comunque avevano rappresentato una modernizzazione della vita in città, con straordinarie invenzioni sia gestionali che di tipologie di servizi ? Insomma come è possibile che in poco tempo evapori un patrimonio rappresentato da quell’ubriacante immagine della folla di mezzo milione di persone che ascolta Berlinguer nel 1976 alla Mostra d’Oltremare al festival dell’Unità? Quel 40 % di voti al PCI come si è squagliato ?
Davvero , come qualcuno continua a pensare , la scomparsa del carismatico Berlinguer è la causa di tale decadimento? Davvero sono stati i suoi eredi, inadeguati per spessore e personalità, a causare il collasso del gigante? Oppure, per venire a Napoli, è stato il terremoto, che certo fu una cesura che separa storicamente le due fasi delle giunte rosse in città, l’origine dell’accartocciamento della macchina comunista nel capoluogo campano? E perché mai una tale emergenza che metteva in evidenza il fallimento del governo centrale a dava alle amministrazioni territoriali ruolo e voce per rappresentare una nuova idea di città da opportunità divenne una tomba delle speranze rosse ? Perché le energie e la visione che erano sottese alle ambizioni di una reale programmazione del territorio che con Vezio De Lucia innestò a Napoli per la prima volta l’idea dello spazio come risorsa da non consumare non trova modo di dialogare con l’esigenza del riassetto globale della città regione ?
Tutto questo nel racconto del regista non c’è, e forse sarebbe davvero ingeneroso chiedergli di colmare una tale voragine. Ma è anche vero che uno sforzo in questa direzione sarebbe stato doveroso perche, come recitava un murales del centro sociale Leoncavallo a Milano, “ il nostro destino è segnato più che dalle molte sconfitte dalle discussioni mai fatte”. E questa rimane una di quelle sospese.
Diciamo che nel racconto vi sono lontanissimi echi, rimbalzati dalle emozioni famigliari di quel gruppo di esponenti che simboleggiarono il cambio dirigente della città: Aldo Cennamo, Berardo Impegno, Benito Visca, soprattutto Andrea Geremicca, Emma Maida e appunto il padre del regista, Antonio Scippa, i cosiddetti assessori. I famigliari, come i figli o le mogli, ci danno spezzoni di vita vissuta, con chiavi di letture non banali, come Federico Geremicca, oggi prestigioso giornalista de La Stampa, che non tace delle tormentate scelte di vita del padre che da giornalista di punta de l’Unità è chiamato al lavoro nella trincea del partito e poi de la Giunta appunto e dei contrasti e vicissitudini di una fase di aspro dibattito interno.
Centrale appare il senso del partito come grande focolare , come comunità totalizzante, come unica bussola di ogni decisione, un partito che sostituiva persino i legami affettivi, e a volte li programmava o li inibiva.
Un partito istitutore e precettore, un partito come accompagnatore e salvatore, percepito come riscatto di millenarie frustrazioni nei bassi del centro storico degradato, come a Bagnoli, a Posillipo a Secondigliano fino al Vomero.
Sono gli anni forti che ritroviamo in una narrazione di asciutto e scarnificato rigore nella trama dell’Amica Geniale di Elena Ferrante che forse ci restituisce meglio di molti saggi politici la concatenazione di quella grande disillusione che poi degrada, all’improvviso in rancorosa delusione.


Quel tunnel che nella saga della Ferrante separa la Napoli bene dai quartieri popolari anche con la Giunta si allunga sempre più, nonostante le bandiere rosse in città, e percorrendolo , in mancanza di concrete strategie di emancipazione collettiva, ognuno trova invece individualmente il modo di acconciarsi a stare dall’altra parte. Come mai le stesse plebi massificate trovano il gusto di un individualismo competitivo? È uno degli interrotivi che rimane sotto pelle, più che nel film in tutta la storiografia della sinistra italiana.
Una risposta poteva venire nell’altra pista narrativa lungo cui si snoda il film,che andava forse più robustamente rappresentata e approfondita : l’autobiografia di un vecchio operaio dell’Italsider, il padre della produttrice dell’impresa cinematografica Antonella Di Nocera, che rievoca la decadenza e la decomposizione di quel mastice sociale che fu l’etica operaia in città, con la dismissione dell’Italsider.
La rimozione di quella astronave che era la fabbrica in riva al mare, che già qualche ora dopo la sua chiusura sembra non esserci mai stata, o invece, sembra lasciare una scia di insopprimibile e non mitigabile nostalgia, muta radicalmente la scena della città che va così alla deriva senza ancoraggi o timoni che le possano dare rotta e stabilità. La scomparsa dei caschi gialli, devotamente maneggiati da una lucidissima Eleonora Puntillo, cronista regina di tutta questa storia,diventa l’alibi per spiegare tutto. Non c’era più la fabbrica, e dunque…..
L’Italisider però non è stata ingoiata in una notte.
La sua è’ una lenta e non riconosciuta consunzione, che l’aggredisce prima, e la dissolve poi, con sintomi inequivocabili, sempre esorcizzati, fino a quel rito della follia che fu il raddoppio del treno di produzione a caldo costato la fortuna allora di mille miliardi solo due anni prima della chiusura.
Siamo nel pieno di una crisi globale dell’intero ciclo manifatturiero in occiedente,che condanna con particolare ferocia la siderurgia italiana per una visione miope e subalterna di quelli che ancora oggi consideriamo colossi della storia nazionale, che guidarono il paese, ma anche l’opposizione e il sindacato negli anni 60 e 70.
Ma anche fu anche una crisi locale a soffocare l’impianto di Bagnoli che si cercava di proteggere per logiche puramente occupazionali.


La classe dirigente di Napoli, allora la sinistra, non si sforzò di collocare la città sulla scena internazionale cercando di capire quale ruolo e funzione si potesse avere e dove concentrare risorse e energie.
Mancò una visione strategica alternativa , una capacità di guardare lungo a cosa realmente stava accadendo nel mondo e alla vocazione reale di una città che ha sempre scambiato al meglio la sua propensione semnatica, la sua istintiva capacità di narrare e relazionarsi.
Tanto è vero che dopo 40 anni siamo ancora a chiederci cosa fare in quel cratere nel golfo abitato più bello del mediterraneo.
Così come rimane a mezz’aria la storia della delocalizzazione dei ceti popolari del centro e tutta la storia di Monte Ruscello. Che idea di città la sosteneva ? Il maleficio di chi – si disse alcuni dei capi clan democristiani del tempo – per motivi non confessabili, programmò quella deportazione che suscitò furore e rabbia di massa contro tutte le istituzioni non fu nè contrastata nè pilotata ma solo patita.
Siamo nel pieno di quel processo di deindustrializzazione globale, che vede contemporaneamente esplodere a Torino nell’ottobre del ’80 la vicenda della Fiat, con la clamorosa sconfitta operaia, che ci dovrebbe portare a ragionare di un anno realmente di svolta che fu appunto il 1980, in cui la sovrapposizione del caso Fiat al nord con il terremoto a sud, mette a nudo, ben prima della morte di Berlinguer, i limiti di un PCI che come partito di classe subisce una mutazione genetica passiva.

Quel partito operaio che con ceti medi ed Emilia rossa pensava di aver fatto i conti con la modernizzazione produttiva si scopre paradossalmente a crescere sul terreno dei diritti civili, con le grandi campagne per il diritto al divorzio e la difesa dell’opzione dell’aborto, con il femminismo che apre gli occhi alla società, con le rivisitazione delle caste professionali che vengono attraversate da una generazione più europea e trasparente, dove movimenti sociali percuotono le vecchie resistenze moderate e provinciali, mentre invece non comprende perché arretra e si consuma sul terreno della lotta sociale, quello, considerato più proprio, dei diritti del lavoro, con il mancato sbocco alle lotte operaie che erano arrivate a porre in discussione il poter e proprietario e a contrattare le grandi strategie della politica industriale, della casa, dell’assistenza sanitaria. Eppure nella sua pancia spiegazioni non mancarono, alcune addirittura in tempi adeguati, quale fu il convegno del 1962 sul neo capitalismo dell’ istituto Gramsci o quella stagione dell’operaismo scientifico di Quaderni Rossi che analizzando il lavoro all’Olivetti previde l’automatizzazione di fabbrica e il nuovo capitale cognitivo.
E’ qui, sull’osso del potere e non del reddito , che si infrange l’onda rossa. Grazie anche alle resistenze del partito napoletano di allora : Amendola, Napolitano , Chiaromonte, monumenti della lotta antifascista e democratica che spinge il PCI sulla linea dei soldoni senza chiacchiere.
Eppure a quel tempo, metà degli anni 70, l’onda rossa, proprio con le lotte sociali, l’egemonia culturale, e il presidio delle città, aveva conquistato casematte importanti, schierando sul terreno, persino a sua insaputa, un esercito potente e persuasivo che il capitale prese sul serio, più che gli stessi dirigenti comunisti.
E’ dalla fine degli anni 70, con il terrorismo, la commistione di camorra-terrorismo- politica, e quella strategia atlantica che spinse l’Occidente ad uscire dalla crisi facendo consumare di più alla parte sociale che già consumava di più – di cui ad esempio la privatizzazione dei sistemi radio-televisivi fu elemento essenziale con la moltiplicazione degli spazi pubblicitari – che si comincia a riprogrammare il mondo, sostituendo il lavoro con forme di sapere e comunicazione che smaterializzano i rapporti sociali.
Napoli diventa così da una parte la città di mille adattamenti, e opportunismi politici, governata, alternativamente da personaggi più che da partiti. Ma da questo guscio si libera la farfalla della leggerezza post industriale, che comincia a volare con il suo patrimonio antropologico, il suo capitale umano artigiano, un’accoglienza che diventa arte, una narrazione che diventa multimedia. E’ la Napoli descritta in un quasi clandestino libro di Walter Benjamin e Asja Lacis, del 1924, Napoli Porosa ,risultato di un viaggio dionisiaco della coppia nel golfo partenopeo, fra Capri e la penisola sorrentina, in cui i due, ignorando volutamente ogni traccia dello storicismo crociano, eleggono la città a capitale di quella che sarà poi la teoria critica della scuola di Francoforte, che Adorno in un carteggio con Benjamin definisce “La scuola di Napoli”.
Nel testo si lavora sulla categoria de l’immagine-pensiero, un’intuizione che anticipa di quasi un secolo la destrutturazione di ogni stabilità del patrimonio iconografo mediante il flusso ininterrotto delle immagine prodotto dalla rete. Si torna così nel labirinto della relazione fra arretratezza e ipersviluppo che annebbia le certezze della sinistra.
La coincidenza fra crisi delle sinistre, di qualsiasi tipo a qualsiasi latitudine, e questo fenomeno che oggi chiamiamo digitalizzazione delle relazioni sociali, da’ un senso e una motivazione a quella crisi antropologica che ci interroga su come vivere in un modo senza sinistra.

E la Giunta ci ricorda che ve ne fu un altro che sta però irrimediabilmente alle nostre spalle.

Michele Mezza



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