I DEMOCRATICI NELLE SFIDE DEL TERZO MILLENNIO

Viviamo nel millennio delle incertezze e della diffidenza, dello smarrimento e della confusione.
Il mondo attraversa continue e ripetute crisi (economiche, ambientali, pandemiche, politico-militari) che indeboliscono il potere della democrazia. La politica sembra non solo incapace di prospettare soluzioni, ma anche inconsapevole della necessità di avviare un profondo cambiamento, necessario e indispensabile per l’umanità intera.


Cooperazione e relazioni internazionali.

Per affrontare le sfide del secolo bisogna riformare le organizzazioni internazionali, a partire dalle Nazioni Unite.
Ampliare la capacità di azione delle relazioni e del diritto internazionale, ma soprattutto, creare le condizioni di una vera cooperazione e collaborazione tra gli Stati per intervenire sui temi di interesse globale: Il divario tra i paesi ricchi e quelli più poveri: la fame, le guerre, la sicurezza, il continuo ed inutile sfruttamento delle risorse naturali, la devastazione dell’ambiente.
L’uomo è al centro della trasformazione in corso in questo dato momento storico, e lo è anche nella capacità di creare ed affrontare il cambiamento utile.
È indispensabile abbattere gli estremismi ed il populismo con un processo di rifondazione della democrazia.


Un altro mercato per la crescita economica.


In un momento storico caratterizzato da incertezza e depressione sul futuro dell’economia internazionale non si può non aprire un confronto politico tra le forze democratiche, riformiste e progressiste dei Paesi sviluppati e quelli proiettati verso la crescita ed il benessere.
Bisogna eliminare le politiche della contaminazione speculativa dell’apparato finanziario che appartiene ai poteri forti con una regolamentazione dei mercati in un diverso impianto economico.
Occorrono regole esaustive, precise, semplificative, non ingessate dalla burocrazia, libere e adatte agli interessi dei diversi soggetti in campo.


Un mondo senza pace.

Sono ancora tanti i conflitti nel mondo, troppi ed in aumento.
Guerre ad alta intensità innescate da molteplici cause: politico-militari, territoriali, economiche, religiose. Uomini, donne, anziani e bambini si trovano all’improvviso a convivere con la presenza continua della morte, della violenza e della distruzione.
A questa tragedia collettiva, alla distruzione di infrastrutture, case, ospedali, scuole, quasi sempre segue l’esodo di milioni di persone verso la speranza e la salvezza.
Con l’aggressione unilaterale della Federazione Russa all’Ucraina, che sta provocando inenarrabili lutti e distruzioni al suo popolo, siamo alla vigilia di un terzo conflitto mondiale.
L’imponente impatto sul piano economico, la grave crisi delle fonti energetiche ha messo in ginocchio gli Stati dell’intera Europa con conseguenze sul piano globale.
Il mondo non si governa con la forza, ma con la solidarietà e la cooperazione.
Occorre chiedere l’immediato cessate il fuoco, sollecitare l’Onu ad intervenire con forze di interposizione tra Russia e Ucraina, imporre veri negoziati di pace, riconoscere che la pace si costruisce solo con strumenti di pace. La diplomazia non può arrendersi alla guerra.

La crisi climatica e ambientale del pianeta.

Dal riscaldamento del pianeta, alla riduzione e deterioramento delle risorse naturali, al degrado del suolo e della terra, la crisi climatica e ambientale diventa sempre più attuale.
L’inquinamento ambientale è un problema globale, che riguarda tutti gli stati, tutti gli esseri viventi e l’umanità intera.
Costituisce la minaccia per la natura, che diventa natura contaminata.
Per abbassare e controllare la soglia di inquinamento ambientale è necessario uno straordinario sforzo politico di regolamentazione dei processi di produzione.
Consapevoli che i processi produttivi non possono essere arrestati, siamo del parere che essi vadano disciplinati in ottica globale, con regole condivise da tutti gli stati. La semplice regolamentazione locale potrebbe invece portare effetti inversi per l’ambiente e catastrofici per la produzione e quindi l’economia locale.
La cultura del riuso, del riciclo, del recupero deve essere la priorità in un’epoca in cui il consumismo la sta facendo da padrone.
Occorre un netto e reale spostamento della nostra economia verso quella che viene chiamata economia circolare. Un’economia basata su manutenzione e riciclo, piuttosto che sulla produzione di nuovi beni di consumo.
Intervenire sui processi produttivi, favorendo ed incentivando i prodotti riciclati ed il riutilizzo significa rendere conveniente l’acquisito di beni prodotti da fonti rinnovabili.
Oggi una risma di carta riciclata costa più di una risma di carta non riciclata. Regolamentare i processi produttivi significa intervenire affinché sia economicamente convenite perseguire ed eseguire la cultura del riuso.
Sono decenni che si parla di fonti energetiche rinnovabili, che offrono vantaggi per la salute dell’ambiente e dell’uomo, Ma di fatto non si fa abbastanza affinché la produzione di energia da fonti rinnovabili sia preferita e conveniente per gli utilizzatori finali.
Regolamentare, nella direzione di una reale e concreta semplificazione burocratica, la produzione di energie da fonti rinnovabili è un dovere.
L’utilizzo del “fotovoltaico”, dell’“eolico”, dell’”energia termica” deve essere regolato con l’obiettivo di incentivare e non scoraggiare gli investimenti in tali direzioni, come avviene oggi.
Non possiamo consentire che l’utilizzo di acque calde emunte da falda o da pozzo, per irrigare i campi agricoli, sia vietato o difficoltoso per chi ha la possibilità di utilizzare tale fonte energetica. Fatti salvi ovviamente i casi che contrastano con la peculiare e pericolosa natura del sottosuolo.
Non possiamo consentire che l’utilizzo di pannelli fotovoltaici non sia semplice ed immediato per l’utente.
Il “vecchio” e sempre più attuale principio dello “sviluppo sostenibile” deve essere oramai e realmente perseguito attraverso una regolamentazione che vada effettivamente a favore dello sviluppo sostenibile.
Preservare il territorio per le generazioni che verranno non significa bloccare i processi produttivi ed economici bensì disciplinarli e favorirne lo sviluppo avendo la capacità di governare tali processi.
L’inquinamento, il depauperamento delle risorse naturali nascono dalla incapacità di governare i processi, ovvero da regolamentazioni rigide e tese a bloccare, impedire ogni iniziativa.
La politica del “no” ha prodotto danni a medio e lungo termine in campo ambientale. Il progresso non lo si ferma, gli interessi economici prevalgono anche sull’ambiente ed il governo dei processi è l’unico strumento reale che può garantire la protezione dell’ambiente.
Tutto ciò deve essere reso possibile anche attraverso una solidale cooperazione e collaborazione tra gli stati.
Occorre affrontare la sfida ecologica del terzo millennio, in modo pragmatico, “sporcandosi le mani”, dove ognuno può e deve fare uno sforzo per cambiare abitudini, e tutelare la salute personale e quella del pianeta.


Una nuova Europa per gli Stati Uniti d’Europa.


La Carta europea dei diritti fondamentali contiene gli ideali su cui si fonda l’Unione europea: i valori universali di dignità umana, libertà, uguaglianza e solidarietà, che hanno creato una zona di libertà, sicurezza e giustizia per i cittadini basata sulla democrazia e sullo stato di diritto.
Dal contenuto della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea nasce una nuova Europa.
Dalla messa in pratica di quel modello non solo economico-monetario e fiscale, ma protagonista nella promozione della democrazia, della coesione, del riconoscimento dei diritti, del lavoro, del l’equità, del dialogo tra culture e civiltà.
Gli Stati membri d’Europa ed i cittadini europei avvertono un vuoto che va colmato, un deficit democratico delle istituzioni, un’insicurezza diffusa tra i popoli che guarda al modo con la quale l’Europa
risponde alle sfide globali del nostro tempo.
In questo delicato momento storico, con la guerra tra Russia e Ucraina, che minaccia un conflitto nucleare mondiale, l’Europa deve esercitare un ruolo politico decisivo nel porre fine al conflitto. Deve attivare tutti i canali della diplomazia, essere unita nella posizione che bisogna assumere: la pace ed il cessate il fuoco.

I Democratici di una Italia protagonista.

Vogliamo un Partito nuovo, una grande forza politica che definisca la propria identità culturale in modo chiaro e netto.
Un Partito con un sistema organizzativo ed una struttura moderna adeguata al nostro tempo, capace di invertire quel sentimento di smarrimento ed incertezze verso il futuro.
Bisogna ristabilire quella giusta connessione con la società, ritrovare i consensi perduti e ricostruire quel rapporto di fiducia, di identità comune e di proposta.
I democratici devono rifondare quel grande partito popolare, né populista né radicale, che sia erede della migliore tradizione del popolarismo cattolico della DC e della cultura popolare del PCI e della sinistra laica, promotore di un nuovo centro sinistra ed interlocutore delle diverse correnti del riformismo italiano e non solo.
Questa è la sfida che sta di fronte a noi: rinnovarsi senza tagliare le radici politiche che affondano nella storia del nostro Paese, come invece purtroppo è accaduto in questi anni in cui siamo apparsi portatori di una cultura politica oscillante fra pensiero lib-lab anglo americano e radicalismo con venature di vecchio massimalismo.
Dopo la vittoria della destra alle ultime elezioni, il PD sembra entrato in una crisi epocale, una crisi diversa dalle tante che pure ha attraversato finora, perché sembra mettere in gioco la sopravvivenza stessa della sua formazione politica e della rappresentanza di un’area di sinistra riformista
proiettata verso una società più giusta e più libera. Tale direzione può essere intrapresa solo da una forza di sinistra, che accentui le sue caratteristiche (DI ESPRESSIONE PRINCIPALE DEL MONDO DEI LAVORI E DELLA PRODUZIONE)e (DI SOSTEGNO ALLE FASCE PIU’ DEBOLI DELLA POPOLAZIONE, CONTRO OGNI FORMA DI SOPRUSO E DI SOPRAFFAZIONE, NELLA PROSPETTIVA DI UN REALE CAMBIAMENTO).
Su questo terreno occorre sviluppare nel nostro congresso una riflessione autocritica che investa il Manifesto dei Valori che varammo nel febbraio del 2008, che sia la base per il nuovo Programma Fondamentale del nostro partito. Una riflessione va pure compiuta sul lungo periodo che si è avviato con la cosiddetta Seconda Repubblica in cui il centro sinistra e l’ulivo sono stati parte dirigente determinante. Nel periodo che va dal 1992 al 2007 è stato realizzato in Italia il più grande piano di privatizzazioni, dopo il Giappone, che nel Rapporto della Corte dei Conti del 10 febbraio 2010 venne quantificato del valore di 152 miliardi .Si sono privatizzate le PPSS con la vendita di importanti assetti bancari e finanziari, nonché settori produttivi di straordinario rilievo strategico nazionale, fra gli altri, l’ENI di cui oggi avvertiamo tutta l’importanza per l’ approvvigionamento energetico, e le Telecomunicazioni che si cerca di riacquisire allo Stato. Su questa fase Giuliano Amato e Romano Prodi hanno di recente compiuto una onesta autocritica. Il primo affermando in una intervista al Corriere il 13 giugno 2017: ”alle nostre spalle c’è un fallimento di proporzioni storiche… ciò che non vedemmo era che la globalizzazione avrebbe portato nei nostri Paesi crescenti diseguaglianze e perdite di reddito, di patrimonio, di posti di lavoro… quando arrivò avevamo smantellato l’intervento pubblico sul quale si era costruito il secolo socialdemocratico….io stesso dicevo che ormai era la politica della concorrenza l’unica politica industriale che serviva”. E Romano Prodi nel suo libro del 2017: Il Piano Inclinato, affermava: ”abbiamo affrontato la globalizzazione con strumenti inadatti e senza una visione di lungo respiro.. c’è stata una divisione internazionale del lavoro scarsamente governata…” e poi lamentava ”l’assenza di grandi imprese, la mancanza di protezione del nostro apparato produttivo, lo scarso ruolo dello Stato”. A queste riflessioni manca quella Di Massimo D’Alema che pure è stato un protagonista come capo del Governo che privatizzò Telecom.
Questi argomenti nel nostro partito, incredibilmente, non sono mai diventati occasione per una riflessione collettiva. Eppure proprio riflettendo anche su questo noi possiamo spiegarci i limiti della nostra azione politica e di governo e la progressiva perdita di consenso in larghi strati della popolazione. Da questo anche dobbiamo ripartire perché non sarà la fuga sui temi dei diritti civili, o l’idea del Partito degli ultimi, o la proposta del partito come unione delle minoranze a risolvere il problema con cui ci dobbiamo cimentare.
Non ci sono rimedi di Sinistra o di destra, è un falso problema o uno specchietto per le allodole. Il PD per essere veramente il partito degli ultimi deve riuscire ad essere anche il partito dei primi, il partito di Napoli ed insieme di Milano, il partito del Nord e del Mezzogiorno unificati in un disegno nazionale. Partire dai dati di fatto: questa è la strada.
Per questo occorre un nuovo programma che parta da queste considerazioni e che non ci veda divisi su chi sia più di sinistra, su cosa sia il riformismo, o, peggio, su quali alleanze vanno fatte. La nostra scelta di fondo è il riformismo del cattolicesimo politico e della sinistra storica italiana (PCI, PSI, PRI) che ha avuto in Europa riferimenti importanti ed unitari nella idea, culturale, prima che programmatica, dell’economia sociale di mercato. Questa idea-programma identifica il capitalismo europeo come sistema in cui i soggetti siano portatori di interessi diffusi (Stakeholders) e che lo differenziano dal capitalismo anglo-americano tutto centrato sui valori strettamente azionari e finanziari (Shareholders). Questo deve essere il nostro sentiero largamente smarrito da noi in questi lunghi anni. Né massimalisti e radicali, né accomodanti e rinunciatari, ma riformisti seri, in grado di valorizzare l’interesse e il bene pubblico ma anche l’interesse dei soggetti privati.


L’interesse che mangia un capitale. Il debito pubblico.

Il nostro è un Paese che paga un debito ereditato da scelte di politica economica e di speculazione che negli ultimi decenni ha portato l’Italia ad un rapporto debito/Pil di circa il 150%.
La riduzione del debito pubblico secondo le vecchie logiche riguardanti i sistemi di restrizioni e del forte avanzo primario hanno determinato negli anni la corsa all’impoverimento e alla decrescita infelice. Va rimodulata in Europa la modalità con la quale si obbligano gli Stati membri al rientro entro 20 anni del rapporto debito/Pil al 60% e dato molto più tempo per tale riduzione magari utilizzando a garanzia i beni pubblici. In ogni caso la rincorsa a rientrare del debito pubblico con avanzo primario al 5% crea di per se fenomeni recessivi. In tal senso occorre stimolare l’Europa ad una modifica del patto di stabilità e a togliere dalla costituzione italiana l’obbligo del paraggio di bilancio ( fiscal compact)
In termini reali la nostra economia non cresce da vari decenni e così pure la produttività, la più bassa d’Europa. Non ci sono importanti investimenti, se si esclude il PNRR, né possibilità di sviluppo rilevanti e di crescita occupazionale.
L’ accumulo di debito obbliga a tenere un livello più elevato dell’avanzo primario, quindi, un interesse che “mangia” il capitale disponibile.
Questo stato di “prigionia” della ricchezza del Paese porta conseguenze sul benessere della società: meno welfare, aumento delle tasse, elevati costi di produzione, diminuzione dei redditi, servizi non sufficienti per la persona.
La riduzione del debito pubblico è un interesse primario di una forza riformista ed esso si realizza con una oculata politica di investimenti, con l’aumento della produzione liberando i protagonisti economici da regole rigide e dando la possibilità alle famiglie di non sottostare al rigore fiscale imposto. Una riforma è possibile, ed è compito dei democratici far partire un processo diverso ed innovativo a partire dalla piena attuazione del Piano PNRR.


Riformare la burocrazia e le istituzioni. Le sorti dello Stato.

Nel nostro Paese i tempi di realizzazione degli investimenti, tra gare d’appalto, permessi e autorizzazioni amministrative, eventuali procedimenti giudiziari e ricorsi, sono più lunghi, e di molto, della media di riferimento europea. Ne consegue che un euro su tre che arriva dall’Europa non venga speso e ritorni al mittente a causa di una burocrazia lenta e obsoleta.
C’è bisogno di una radicale riforma della Pubblica Amministrazione
promuovendo capacità e merito, incentivando produttività ed efficienza, ma soprattutto innovazione tecnologica sostenuta da un vasto piano di ingressi di giovani laureati e diplomati in tutte le discipline tecniche, economiche e finanziarie. A tale fine occorre aumentare la quantità di risorse per la formazione, a tutti i livelli, con particolare attenzione alla diffusione degli ITS dai quali attualmente vengono licenziate poche migliaia di tecnici superiori a fronte di un fabbisogno di decine di migliaia ogni anno.
Occorre anche che la scelta del programma scuola lavoro, opportunamente vagliata, ed eventualmente, corretta venga sostenuta nel quadro di un sempre più proficuo rapporto fra mondo della produzione e mondo della formazione.
Su questo terreno occorre anche valutare, nell’età dell’obbligo, in particolare in alcune aree del Paese come Napoli, Bari, Palermo, dove la elusione ed evasione dall’obbligo ha livelli intollerabili, se non sia il caso sperimentare percorsi scolastici speciali in cui l’apprendimento si intrecci con la formazione lavorativa in grado di suscitare interesse e prospettive reali di inserimento nel tessuto produttivo, senza per ciò pregiudicare ai giovani, aperture verso percorsi formativi superiori.
Un discorso va fatto anche per l’avvio di un piano vero di formazione e di apprendistato nell’ambito di un PIANO DECENNALE per IL MEZZOGIORNO di cui ha parlato anche il Presidente di Confindustria Bonomi. Un piano rivolto all’apparato industriale e produttivo di Napoli e del Mezzogiorno che non si limiti alla sola PA. A questo piano dovrebbero prendere parte anche tutti coloro che percepiscono il reddito di cittadinanza che siano potenzialmente occupabili. Tale piano deve essere il frutto di una concertazione fra parti sociali, economiche ed istituzionali e va inquadrato in un più generale patto dei produttori per il rilancio dell’economia del Mezzogiorno a partire dai grandi settori produttivi, industria, agricoltura e dai nodi strategici: Napoli e Taranto la cui siderurgia è un interesse nazionale.

Anche se il dibattito è molto intenso con miriade di proposte presentate, sul piano pratico molto poco è stato fatto per le riforme istituzionali nel nostro Paese. In queste settimane è tornata in discussione la proposta del Ministro Calderoli di autonomia differenziata.
Nella Costituzione del ‘48 alle Regioni venivano delegate 19 materie. Con la riforma del Titolo V, nel 2001, si aggiungono 25 materie, sia pure in forma concorrente con lo Stato. Con il percorso di Autonomia Differenziata alle Regioni vengono di fatto attribuite, in modo, questa volta, esclusivo, le 25 deleghe ora concorrenti ed in più altre deleghe in capo allo Stato. Si va dunque delineando un cambiamento abbastanza radicale delle norme costituzionali originarie che mettono in discussione la forma stessa dello Stato, perché si configurano le Regioni come dei veri e propri ministati.
Dunque, i rilievi che si possono muovere a questo disegno di riforma regionale non si possono ridurre al solo aspetto fiscale finanziario: Quello su cui bisognerà, invece, riflettere è l’aspetto politico istituzionale che prende corpo in questo processo di riforma che porterà, indubbiamente, ripercussioni sul sistema di governo centrale del Paese.

Una riflessione particolare merita, poi, il regionalismo nel Mezzogiorno con particolare riferimento alla tematica dello sviluppo. Gli unici due decenni (50’-60’;60’-70’) che hanno visto uno sviluppo forte e sostenuto dei vari fattori nel Mezzogiorno sono stati segnati dall’intervento straordinario, progettato e realizzato dalla Cassa del Mezzogiorno. In questi due decenni il divario si è effettivamente ridotto in modo significativo. Dopo di allora e, malgrado l’istituzione delle Regioni, il divario non solo non è diminuito, ma è cresciuto raggiungendo in termini relativi condizioni da secondo dopoguerra.
Ora, con il PNRR, il Mezzogiorno può avviare una svolta, perché si tratta di risorse importanti e di interventi programmati centralmente che assumono in sé anche la dimensione territoriale e regionale. Non esiste né a sud né a nord una politica di sviluppo che si possa rinchiudere dentro una dimensione regionale. Solo una programmazione nazionale di medio lungo periodo, in un quadro UE, concertata con il sistema regionale e delle autonomie, è in grado di affrontare le grandi sfide che stanno di fronte al nostro Paese. Resta fondamentale dunque il ruolo dello Stato, soprattutto in questa tragica congiuntura internazionale e tenendo conto della possibile e realistica evoluzione del processo di integrazione europea. Una riflessione va fatta pure sulla esperienza di funzionamento degli enti locali per evidenziare e correggere alcune criticità che si sono mostrate. L’istituzione della Citta Metropolitana non è stata una scelta positiva; occorre ripristinare la Provincia con i suoi organi elettivi.
La città di Pozzuoli ha conosciuto in questo decennio un positivo processo di sviluppo con la guida del centro sinistra grazie ad una significativa capacita di programmazione degli interventi ed un continuo confronto con gli altri livelli istituzionali regionali e governativi. Oggi Pozzuoli rappresenta nel panorama provinciale e meridionale un sicuro riferimento anche per il partito, a testimonianza della capacità di governo della sinistra e del centro sinistra che non va dispersa ma, al contrario, studiata ed estesa.


L’ Italia nel Mediterraneo tra occidentale e oriente.

L’Italia si è ritrovata molto spesso impossibilitata a comprendere quali fossero le sue potenzialità nell’approccio agli eventi del mondo.
La globalizzazione ha amplificato l’interconnessione delle dinamiche mondiali ma l’Italia non ha colto la sua posizione di privilegio.
L’importanza geografica del nostro Paese ne fa oggi uno dei luoghi con il maggior potenziale di crescita nell’ambito delle relazioni economiche, politiche, culturali ed internazionale.
Con lo spostamento dei grandi traffici dall’Atlantico all’Asia, grazie ad una posizione privilegiata nel cuore del Mare Mediterraneo, possiamo riscoprire quella antica vocazione di porta verso l’Oriente e dall’Oriente in Europa.
Dovremmo essere lungimiranti in questa fase: la Cina e l’India aumentano sempre più la loro espansione. Mentre noi combattimento con la recessione, loro hanno già vinto con la sfida del terzo millennio.


Evasione fiscale ed economia sommersa. Un patrimonio perso.

L’evasione fiscale è un elemento strutturale dell’economia italiana, ed è al centro dei principali comportamenti che caratterizzano l’illegalità economica, quali corruzione, riciclaggio, l’autoriciclaggio, la provvista di fondi neri, senza poi tralasciare l’economia sommersa, cioè tutte quelle attività che contribuiscono al PIL ma che non sono registrate e quindi tassate. Questo fenomeno porta una minore entrata di denaro nelle casse dello Stato ed una distorsione del mercato con vantaggi per gli evasori.
Anche se “timidamente” gli ultimi governi sono riusciti a diminuire i tassi di evasione ed elusione fiscale, in tal senso gli strumenti tecnologici di tracciabilità dei soldi sembrano efficaci, come lo sono le interconnessioni tra gli organi ed uffici preposti al controllo.
Ciò non basta, l’Italia ogni anno perde un patrimonio che potrebbe investire per la società abbassando il tasso di interesse del debito pubblico.
Si pensi alla possibilità di una patrimoniale, ad una tassazione seria su extraprofitti e transazioni finanziarie (Tobin tax da attuale 0.02 a 1) netta con opposizione alla flat tax. Si pensi ad un fisco più equo e progressivo, con particolare attenzione alle fasce deboli, proponendo una misura fiscale significativa a favore dei giovani che ne incentivi l’ingresso nel mondo del lavoro.
Si dia un colpo netto al lavoro nero, che oltre a rendere “prigionieri” tante lavoratrici e lavoratori, sottrae tanta ricchezza al Paese.
Si intervenga sull’imponente ed “invisibile” economia delle organizzazioni criminali.
Assistiamo, soprattutto durante i periodi di depressione economica, ad un declino culturale in alcune aree del Paese che spinge non poche persone tra le braccia delle mafie e delle diverse organizzazioni criminali. Le si possono considerare un vero e proprio Stato-ombra, con la capacità di attrarre consensi ed aggregati soprattutto fra i giovani, facendosi garanti del loro futuro e di un facile guadagno.
Le attività criminali principali sono il racket, la prostituzione, lo spaccio di droga e armi, lo smaltimento di rifiuti illegali, l’usura, le truffe ed altro ancora.
Uno Stato-ombra che cresce, si rafforza, penetra nella nostra economia investendo in attività imprenditoriali e commerciali che danneggiano il nostro Paese sul piano economico, sociale e culturale.
Bisogna togliere ossigeno a questo sotto mondo parallelo, aumentando la presenza delle istituzioni, bisogna istruire le nuove generazioni e garantire una scelta di vita dignitosa e onesta. E l’unità di base dalla quale partire per far sentire la mano dello Stato è la scuola. C’è l’estremo bisogno di investire su strutture adeguate, attività di formazione che preparino i ragazzi alla vita fuori dalle mura scolastiche.
Anche sul piano della procedura e delle norme giuridiche in materia penale necessiterebbe un piano di riforme, a garanzia del cittadino onesto.
Occorre combattere la scarsa trasparenza di chi gestisce la cosa pubblica e identificare i conflitti di interesse tra finanza, politica, affari e istituzioni; tutti fattori che indeboliscono quel buon funzionamento di un Paese.


L’Italia di un nuovo welfare e delle pari opportunità.

Il Partito Democratico simbolo delle Pari Opportunità e delle diversità di genere.
Le Pari Opportunità mostrano quanto sia elevato il livello di emancipazione dell’uomo.
Le politiche di parità di genere promuovono l’autonomia e la qualità della presenza femminile in ambito professionale, familiare, sociale e politico-culturale.
Si pensi alla distanza economica della retribuzione tra il genere maschile e quello femminile, le donne lavoratrici devono avere gli stessi diritti del lavoratore, consentendo al tempo stesso, la piena valorizzazione in ambito familiare e privato.
Con il Codice delle Pari Opportunità il legislatore ha compiuto qualche passo in avanti, anche se resta ancora da applicare in modo pieno il dettato costituzionale.
Nonostante il raggiungimento di diversi obiettivi inerenti alla parità di genere, possiamo dire di essere ancora lontani dal rappresentare quel grado di maturità e di civiltà umana.
La lotta per la parità e il rilancio e sostegno alla Famiglia riguardano infatti tutte e tutti noi e la loro realizzazione porterebbe beneficio alla società intera e anche all’economia, essendo un interesse strategico nazionale contrastare ed invertire la tendenza in atto all’inverno demografico che rischia di gelare il nostro Paese.
I democratici devono continuare e incrementare le battaglie a favore dei diritti umani, dei diritti civili, dei diritti delle donne e delle minoranze come è stato fatto con la legge sulle unioni civili.
Garantire, sempre, accoglienza e sostegno agli ultimi, alle persone che chiedono aiuto, ai migranti che si rivolgono all’Europa e al nostro Paese, nel quadro di una seria regolamentazione e legalizzazione dei flussi migratori che renda governabile questo complesso fenomeno globale.
Proprio in tema sociale bisogna progettare un nuovo welfare.
La pandemia da Covid che stiamo attraversando, in particolare nella prima fase di contaminazione del virus, ha messo in risalto le difficoltà strutturali delle politiche sociali: dalla sanità alla scuola all’azione assistenziale e tutto ciò ci obbliga a fare una verifica della stessa legge di riforma sanitaria che risale al 1978.
Il Partito Democratico deve avviare una fase per la costruzione di un innovativo impianto sociale con strumenti culturali e tecnici per implementare un nuovo welfare che porta il segno della diffusione del benessere umano.


Lavoro e innovazione tecnologica.

Il lavoro sta cambiando in tutte le sue forme. La globalizzazione ha prodotto una vasta opera di redistribuzione del lavoro che ha anche incentivato forme di grave sfruttamento nei paesi terzi e forme di precariato nelle metropoli occidentali ed europee.
Numerosi sono stati i processi di riforma del mercato del lavoro, partendo dalle tipologie di contratti che avrebbero dovuto eliminare la normativa rigida dei precedenti contratti.
Riforme che da un lato avrebbero dovuto abbassare il costo del lavoro e dall’altro garantire l’aumento dell’occupazione.
Non è stato proprio così. I dati mostrano chiaramente un’inversione di tendenza propria degli ultimi anni che consiste nella diffusione dell’dell’occupazione a termine rispetto a quella permanente ed anche del lavoro povero.
La lotta per arginare la piaga della disoccupazione e della mancata occupazione non si può ridurre alla revisione di una norma: un’industria che non produce licenzia e non assume, un’impresa che si ferma non assume, un’attività che non ricava profitti non prende personale, a prescindere dal tipo di contratto.
Ciò che è fortemente cresciuto negli ultimi due decenni è il precariato della flessibilità.
È mancato nel nostro Paese un vero e proprio investimento sulla economia reale, una significativa riforma dei processi produttivi, strutturali, della innovazione tecnologica e delle competenze. Su questo c’è stato una grave sottovalutazione anche da parte nostra.
Si pensi alla disoccupazione giovanile che resta una delle principali preoccupazioni e prerogative del nostro Paese, una ferita aperta della nostra società che non può essere risolta con “dosi di anestetico” come i corsi di orientamento, di formazione e tirocini, il più delle volte fasulli e senza finalità concreti e reali.
I giovani, protagonisti del futuro, sono esposti come mai prima d’ora al rischio di esclusione sociale.
Non è diversa la posizione delle donne.
Manca una vera e propria concezione moderna e rivoluzionaria del mercato del lavoro e del progresso tecnologico.

L’innovazione tecnologica è un elemento chiave per la crescita e per lo sviluppo, in quanto la stessa crescita economica è strettamente correlata all’evoluzione tecnologica.
Negli ultimi anni è cresciuto sia il consenso verso una sempre più rapida innovazione nel campo lavorativo, ma anche la preoccupazione della potenziale erosione dell’occupazione, causata proprio dall’innovazione è dalla assenza di competenze e idonei profili da poter collocare nel mondo delle professioni.

Il nuovo Partito Democratico non può che investire sé stesso nella sfida del lavoro e dell’occupazione, guardare al futuro con coraggio, ritornare a governare con la consapevolezza di essere attore principale di questo tempo.


Un nuovo Partito Democratico per governare l’Italia.


La nascita del Partito Democratico doveva creare le condizioni per una svolta non soltanto politica, ma anche culturale del nostro Paese.
Si definiva una grande forza popolare e riformista, pronta a governare il Paese ponendo le fondamenta sulla base di un patto di cittadinanza.
Il suo messaggio di fiducia partiva dalla convinzione di raccogliere le energie del Paese, con l’impegno di costruire una nuova classe
dirigente, in grado di guidare gli italiani sulle vie del mondo, quelle vie che un grande popolo come il nostro ha saputo percorrere per secoli con la sua arte, la sua cultura, le sue scoperte scientifiche, la
sua singolare umanità.

Una grande sfida fu messa in campo, ricca di importanti contenuti politici, economici, sociali, ma nella fattispecie concreta si è delineato il logoramento di una delle organizzazioni partitiche più importanti del terzo millennio. Tale logoramento è anche il frutto dell’offuscamento e della sconfitta di alcuni punti politici del nostro programma del 2008, presenti anche nel discorso di Veltroni al Lingotto nel 2007.
Il bipolarismo e, tendenzialmente, il bipartitismo come orizzonte politico nostro, non sono nella realtà del nostro Paese.
Il progetto di riforma costituzionale del sistema politico teso al superamento del governo parlamentare in favore di un governo eletto direttamente dai cittadini è stato sconfitto dall’elettorato il 4 settembre del 2016 in un referendum bocciato dal 60% di elettori.
Il partito dalla forma leggera e con debole radicamento sociale e molto proiettato sul tema dei diritti civili non ha mostrato alcuna capacità attrattiva negli strati popolari.
L’abolizione con decreto del governo Letta nel 2013 del finanziamento pubblico ai partiti è stato un grave errore politico ma, prima ancora, un cedimento culturale alla antipolitica che anche in altri casi non ha portato alcun beneficio al nostro consenso o credibilità. Il finanziamento ai partiti va riproposto perché è una necessità democratica se si vuole ricostruire il sistema dei partiti secondo il dettato costituzionale.
Insomma di quell’impianto del 2007-8 resta la realizzazione della riduzione del numero dei parlamentari di cui parlò Veltroni al Lingotto, che Zingaretti aveva sempre avversato e che, in modo incredibile, nel giro di 24 ore fece proprio pur di realizzare il governo con i5s.Anche questa vicenda testimonia di una grave disinvoltura politica del gruppo dirigente che ha significato una indiscutibile vittoria della demagogia antipolitica dei 5s,che però sono stati clamorosamente dimezzati alle ultimi elezioni. Bisogna fare tesoro di queste lezioni e superare insieme la palese crisi di un intero un gruppo dirigente che s’è auto-distrutto nella guerriglia interna, nelle scelte di governo, nel distacco dai reali bisogni dei cittadini.
Alle elezioni dello scorso settembre vince il centro destra con fratelli di Italia primo partito. Vince perché convince, si ramifica bene nei territori e riesce a cogliere le sofferenze e la rabbia degli italiani. Ma questa vittoria dimostra anche (ed è una beffa) che un partito organizzato, erede ed espressione di una continuità storica e politica con la destra di Almirante, visibile perfino nei suoi gruppi dirigenti, ha una sua attualità forte che spazza via la leggenda del partito leggero, leaderistico.

Resta come si è visto il grande problema dell’astensionismo e cioè che il 36 per cento degli elettori non è andato a votare: sfiduciato, distante, ed ormai lontano dalle promesse di una società migliore.

Adesso bisogna ripartire, partecipare alla costruzione di uno nuovo Partito Democratico: nella sostanza e nella forma.
Bisogna crederci e dire basta ad un partito oligarchico, dilaniato in una logica di correntizia e spartitoria. Costruiamo un partito organizzato e popolare.
Ripartiamo dalla base, dai territori, dalle persone, dalle loro storie, le loro vite, le loro ansie e le loro paure. E sono queste che vanno conosciute, studiate, ascoltate, per camminare insieme.
Ripartire dalla base, conoscerne le disuguaglianze e con responsabilità e serietà provare a governare dando risposte concrete e credibili.
Dare credito ad una nuova classe dirigente che possa sanare le fratture interne.
Un nuovo Partito Democratico che ritorni protagonista nella costruzione di un centro sinistra che contrasti le destre, una nuova coalizione pronta a governare le sfide economiche, sociali, del lavoro, del welfare, dell’impresa, della scuola.
Che sia il Congresso Costituente il momento ideale affinché il Pd ritrovi sé stesso: la sua vocazione maggioritaria, popolare e riformista una forza del 30% che aspiri ad essere la maggioranza relativa del Paese intero la cui identità non sia definita dalle alleanze che sceglie ma dalle cose che dice e che fa a Roma come a Milano come a Napoli e che mostri una coerenza nelle sue priorità programmatiche nell’interezze della Nazione.

Quando una classe dirigente politica perde le elezioni ne assume la responsabilità. Quando la stessa classe dirigente sconfigge anche sé stessa non va neppure ricordata dalla storia.


Pozzuoli, 9 gennaio 2023

Gli iscritti al Partito Democratico dell’area Flegrea:


Francesco Paolo Amato
Mariano Amirante
Luigi Carnovale
Antonello D’Amico
Roberta D’Isanto
Stefania De Fraia
Marzia Del Vaglio
Gianfranco Di Somma
Tony Di Somma
Antonio Esposito
Rosa Esposito
Vincenzo Figliolia
Andrea Fulvio
Roberto Gerundo
Gennaro Guarino
Vincenzo Ingaldi
Paolo Ismeno
Giancarlo Leone
Gennaro Lubrano
Angelo Lucignano
Arturo Marzano
Mario Massa
Agostino Renzi
Leonardo Terrin
Antonio Tufano
Michele Vanacore
Antonio Villani

* L’immagine in evidenza è un particolare di un’opera di Mary Cinque tratta da Infinitimondi 26/2022

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1 commento

  1. le voci di dentro direbbe Eduardo, un bel documento, frutto di una cultura politica che affonda le radici nella cultura originaria della sinistra, come evidenziano alcune autorevoli proponenti. La domanda legittima è: che spazio può avere questo punto di vista in un partito ormai saldamente ancorato a una visione liberista ?

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