Mi voglio “infilare” in una “materia questionale” complessa, dibattuta ma con risposte teoriche e/o concrete che si disperdono come fanno i polloncini nel cielo e nel vento.
Perché non c’è un “partito verde” in Italia? Salvo “testimonianze” di 1÷2%?
Eppure oggi transizione ecologica, conversione energetica, economia circolare, cambiamenti climatici ci parlano moltissimo di “ambiente”.
L’ ambiente, quello che deve accompagnare l’economia con l’ambizione di cambiarla in maniera sensibile.
Una sfida enorme, difficile ma probabilmente non più rinviabile ed inevitabile.
Le domande poste sono però fra il “retorico” e “socratico”, poiché ahimè le risposte sono storicamente e culturalmente evidenti nell’ambito della nostra politica nazionale.
Perciò preferisco affidarmi e affidarvi ad un consapevole “esame di coscienza” di tipo socio-culturale.
Ma vediamo di dire comunque qualcosa, spero non di repertorio.
Il riscaldamento climatico, la crisi delle tante disuguaglianze, il crescente numero di persone che hanno cominciato a guardare in modo diverso alla propria vita.
Abbiamo a che fare con tre tipologie di crisi:
(1) economico-ambientale, (2) politico-sociale, (3) personale-esistenziale.
Ma cosa hanno in comune? Se lo hanno, ovvio?
A ben guardare, al fondo di tutte e tre – e quindi probabilmente al cuore della sfida della nostra vita e contemporaneità – c’è il “Lavoro”.
Ecco perché, fino alla noia, insisto da tempo sulla necessità ed utilità di costruire dal basso un “Movimento eco-socialista di massa” che potrebbe contare anche e forse principalmente sulle energie dirompenti ed innovative dei nostri giovani.
Giovani molto attenti e preparati su queste tematiche che devono avere lo sguardo alto e lungo! Ma le legittime proteste, anche molto dure ed irridenti, devono essere accompagnate e concretizzate con un nuovo modello politico che coinvolga ed appassioni le tante energie!
In particolare, non tanto il Lavoro inteso come produttività, numero di ore lavorate, modalità di esecuzione (smart-working, home-working, tele-lavoro, chiamatelo come vi pare);
ma nemmeno inteso come precarietà e diffusa disoccupazione.
Ad essere in crisi oggi è anche il “concetto di Lavoro”: cos’è esattamente? E perché in fondo lo facciamo?
Il Lavoro che si prende pezzi sempre più estesi della nostra vita, a cosa serve?
“Mettere il pane in tavola”, “pagare le bollette”, sono certamente indispensabili e prioritarie componenti, ma è tutto?
Tanto più che oggi un piatto di pasta e un tetto sopra la testa – grazie a Dio – non lo si nega “quasi” più a nessuno.
No, per carità diddio, c’è il “valore del Lavoro”, il suo significato nel lungo termine, il suo senso profondo che hanno cominciato a riemergere, a ridiventare agli occhi di moltissimi sempre più evidente.
Il Lavoro, come strumento di realizzazione personale: intima, legata al perseguimento di un progetto di vita e di creazione di valore comunitario.
E la sua definizione si sta lentamente spostando dall’intenzionalità (“devo farlo”) alla volontarietà (“voglio farlo”); dalla remunerazione (“lo faccio per me”) alla cooperazione (“lo faccio anche per gli altri”).
Un processo lento, questo, ancora largamente minoritario e confuso, ma sempre più evidente e che va accompagnato, diffuso, incoraggiato.
Un cambiamento che appare impalpabile e vago, ma che invece è incredibilmente concreto e dalle implicazioni profonde.
Solo cambiando “senso” del Lavoro possiamo abitare questa epoca della complessità; questo tempo più emancipato ma più contraddittorio e/o “spaventoso”.
Naturalmente il “senso” dovrà e accompagnerà l’offerta del Lavoro, al momento insufficiente!
Sapere di cosa parliamo quando parliamo di Lavoro non può che essere la prerogativa necessaria per lavorare insieme, per quindi ottenere benefici per tutti.
Chiacchiere da borghesia illuminata? Da ZTL? Incomprensibile per i tanti che ingiustamente soffrono? Spero naturalmente di no!
Resta che pensare di poter mantenere il nostro stile di vita e di consumi e in più diffonderlo a tutti e a miliardi di persone solo con le energie rinnovabili e a emissioni zero è solo utopia.

Il modello di vita ideale dominante oggi è ancora legato al consumismo, soprattutto “posizionale”: la persona di successo è chi lavora duro e grazie ai soldi che guadagna riesce a permettersi beni e servizi di lusso con cui si accredita in società.
In alternativa, c’è il consumismo “consolatorio”: la persona perbene comunque lavora sodo, magari adattandosi a un ruolo spiacevole e ingrato, ma viene premiata per i suoi sacrifici con svaghi e piaceri nel tempo libero.
Insomma, nonostante l’aumentare della sensibilità ambientale e dell’attrattività della frugalità, il nostro modello di benessere e sviluppo è ancora centrato sulla remunerazione – anche se prodotta da un lavoro spiacevole – sulla produttività – anche se esagerata – e sul consumo – anche se non “generativo”.
La crisi politica e sociale legata alle disuguaglianze ha dopotutto le stesse radici. Se è vero che sempre meno persone detengono sempre più ricchezza, è anche vero che il reddito medio delle famiglie occidentali è generalmente aumentato negli ultimi 30-50 anni.
Semplificando molto, quindi, non è tanto che la gente stia effettivamente peggio, è che riesce sempre meno a permettersi quegli stili di vita “ideali”, quello status sociale e quei consumi che invece sono sempre più esclusiva di pochissime persone: quel 10% di classe agiata che è il punto di riferimento culturale per tutti.
Non per essere riduttivo ma occorre una forza politica per imporre un “Patto Ambiente-Lavoro”
Perché la qualità della vita non è un “optional” e deve sempre valere di più che: “si lavora per vivere, non il contrario”!

Rosario Muto

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