Pubblichiamo la scheda di presentazione e l’introduzione di Giovanni Cerchia: ringraziamo Autori e ed Editore

La transizione dai governi liberali all’affermazione del Fascismo in Terra di Lavoro si intreccia strettamente con le vicende personali di Enrico Villani, un robusto intellettuale di provincia che si trova ad essere protagonista di una fase cruciale della storia della sua terra. Formatosi alla scuola di un prete garibaldino in camicia rossa, aderisce alla massoneria e diventa amico di Alberto Beneduce. Alimenta, attraverso lo studio sistematico, la conoscenza del patrimonio archeologico dell’area matesina ed entra in contatto con Angelo Broccoli. Aderisce al Partito fascista soltanto nel 1923. Nel 1924 entra a far parte del Direttorio provinciale di quel partito e in questa veste, l’anno successivo, viene nominato Commissario prefettizio per la gestione straordinaria del comune di Piedimonte. Da Commissario mette in luce nell’amministrazione pregressa l’esistenza di una vera e propria tangentopoli. Forse anche per questo nel ’26 viene espulso dal Partito fascista, nel quale ormai la fanno da padroni tutti i vecchi gruppi dirigenti locali clientelari consolidatisi già in epoca liberale e giolittiana. Mediante una straordinaria manovra trasformista praticata su larga scala il Fascismo abbandona gli aneliti riformisti e rivoluzionari della prima ora e si affida nel governo locale al personale politico e ai potentati di sempre. Mussolini sperimenta con successo in Terra di Lavoro una strategia per allargare la forza e l’influenza del Pnf che diventerà in seguito la linea vincente su scala nazionale. La più estesa provincia dell’Italia meridionale, nel ’27 clamorosamente soppressa, si trova così ad essere un grande laboratorio delle manovre politiche nazionali.

Adolfo Villani è dirigente politico ed ha pubblicato numerosi saggi. E’ stato Sindaco di Capua nei primi anni ’90 e Consigliere regionale della Campania dal ’95 al 2005.

Giovanni Cerchia è professore ordinario di Storia contemporanea presso l’Università degli studi del Molise.

L’INTRODUZIONE DI GIOVANNI CERCHIA

Una delle interpretazioni più durature sul dualismo economico e politico italiano fa perno sull’assunto della doppia velocità del Paese, con un Mezzogiorno (palla al piede) permanentemente attardato, a dispetto di un Settentrione lanciato sulla strada della modernità. Questa semplificazione ha le sue ragioni oggettive, anche se spesso è stata usata a sproposito e ricondotta a stereotipi privi di fondamento, a partire dalle risibili valutazioni antropometriche della scuola di Lombroso[1], o alle teorie sulla fragile civicness meridionale[2], per finire alle più recenti — ma altrettanto discutibili — rivalse neoborboniche fondate sul complotto e sulla conquista predatoria di una parte ai danni dell’altra[3]. Più interessante e fondato, invece, è il dibattito sulle radici di lungo e breve periodo del divario, con un confronto che si è fatto vieppiù interessante intorno alle celebrazioni del 150° dell’Unità nazionale[4]. Senza voler approfondire più di tanto, va detto che il doppio registro Nord-Sud vale anche per alcuni aspetti molto controversi della modernità, come l’avvento del regime fascista che rispondeva in termini totalitari alle dinamiche e ai conflitti della nuova società di massa novecentesca, a fronte di un sistema liberale che si dimostrava incapace di interpretare e rappresentarne le istanze. Era quest’ultima debolezza, non la presunta forza di Mussolini, a determinare in termini decisivi il corso degli eventi, anche se con impatti differenti a seconda dei contesti territoriali.

Il fascismo è uno dei frutti avvelenati della Grande guerra. Non di meno, il movimento delle origini era assai fragile, confinato in alcuni settori dell’ambiente urbano, apparentemente destinato «a un’esistenza grama e ad un esaurimento più o meno rapido»[5]. Era l’erede, residuale e minoritario, di parte di quella galassia filo-bellicista che aveva riempito le piazze tra la fine del 1914 e la primavera del 1915 (futuristi, arditi, sindacalisti rivoluzionari, ex studenti che sarebbero passati al vaglio della guerra come ufficiali di complemento)[6] e che Mussolini avrebbe voluto trasformare in una «costituente interventista». Ma «neppure a Milano, dove l’influenza» dell’ex dirigente socialista «era più forte, riuscì a trovare molte adesioni»[7]. Nel novembre del 1919, il primo voto politico del dopoguerra ne rivelava l’assoluta marginalità politica, proprio mentre si registrava il trionfo dei socialisti e dei cattolici che conquistavano la maggioranza assoluta. Gli squadristi potevano anche incendiare la sede de «l’Avanti!» (come accadeva nell’aprile del 1919), ma non avrebbero avuto alcuna possibilità di travolgere motu proprio il regime liberale e la nascente democrazia italiana. Fu invece quest’ultima a fallire nel proprio compito, strangolata dalle incertezze e dalle contraddizioni interne dei nuovi partiti di massa[8]. Non era scontato che ciò accadesse, ma nemmeno un evento assolutamente casuale, poiché quella fragilità del tessuto liberaldemocratico aveva radici lunghe, innervate nella biografia di una giovanissima nazione — appena un sessantennio di vita — che scontava ancora uno scarso radicamento delle proprie istituzioni fra le masse popolari.

Era così che le debolezze altrui favorivano Mussolini, conferendogli l’inaspettata opportunità di riempire un vuoto d’iniziativa politica e di rassicurare i poteri tradizionali — le élite economiche, burocratiche, istituzionali, la chiesa cattolica — terrorizzati dalla nuova società di massa e dalla possibile infezione bolscevica. Paure non solo italiane, anche se solo nel nostro paese — oltre che nell’Ungheria del 1920, ma in maniera e con componenti molto diverse — portavano immediatamente al governo la poliforme coalizione di interessi che animava gli albori della «rivolta conservatrice»[9] del vecchio continente. Se mi è permesso dirlo in termini un po’ provocatori e paradossali, il fascismo era la componente nazionalista radicale e assolutamente moderna di un’insorgenza — conservatrice, antisocialista e  antidemocratica — contro la modernità stessa. Per questa ragione non poteva che prendere vita prima nel Nord industriale nel corso del Biennio rosso, poi nella progredita pianura padana a partire dal novembre del 1920. Le spedizioni punitive in capitanata iniziate nell’agosto precedente erano vicende importanti, ma in fin dei conti isolate dal contesto generale[10].

La vera ondata fascista arrivava nel Sud solo nel 1924, quando le elezioni registravano un consenso quasi plebiscitario in favore del listone ispirato dal duce, sostenuto a spada tratta dalle vecchie clientele trasformiste che, talvolta dopo un rapido passaggio nelle fila nazionaliste (confluite tra le camice nere nel 1923), salivano di corsa sul carro del vincitore. Nel farlo, tuttavia, rivendicavano la piena continuità del proprio potere politico e sociale, spesso in conflitto aperto con gli squadristi della prima ora che predicavano invece una discontinuità rivoluzionaria. Una stagione ben riassunta dal duro confronto tra il capitano Padovani e l’on. Greco, con il prevalere del secondo e degli interessi del tradizionale latifondo agrario. Fu quella vittoria e quel compromesso tra regime e galantuomini — grazie anche al non piccolo contributo di mafia e camorra[11] — a garantire lo straripante ingresso e consolidamento del regime di Mussolini nel Mezzogiorno: «nel Sud», ci ricorda Simona Colarizi, «il rapporto proletari-potere rimane anche sotto il regime fascista quello tradizionale, basato sulla rassegnata impotenza delle classi subalterne che subiscono fatalisticamente il dominio come una delle tante sciagure naturali, ricorrenti nella loro esistenza disperata»[12].

Il lavoro di Villani si inserisce in questa cornice, indagando in modo particolare le vicende di Terra di lavoro, all’epoca la più estesa tra le province italiane. Per un verso, sostiene l’autore, il casertano non si sottraeva alle dinamiche generali di un trasformismo che, sotto il manto autoritario dello Stato, garantiva la piena continuità degli assetti gerarchici del passato. Sotto l’egida fascista, tuttavia, si trasferivano anche tutte le accese diatribe della borghesia liberale, determinando un vero e proprio «guazzabuglio» difficile da districare e da pacificare. Anzi, lo stato di confusione e l’entità delle frizioni erano tali che, forse, contribuivano non poco al successivo traumatico scioglimento della compagine provinciale, nel 1927. In ogni caso, questa la tesi centrale di Villani, la confluenza dei trasformisti non era affatto la conferma dell’eterno ritardo del Sud, quanto invece un preannuncio della normalizzazione che il fascismo-regime avrebbe poi imposto al resto del Paese. Il Mezzogiorno, la Campania, Caserta diventavano, così, una sorta di officina-laboratorio dove si forgiavano tutti gli strumenti del populismo mussoliniano e della sua parabola vitale: da alfiere della rabbia dei reduci a interprete-strumento delle classi dominanti. Un esito che sembrerebbe pienamente anticipato anche dal caso esemplare delle corruttele amministrative di Piedimonte Matese denunciate nel 1925 da Enrico Villani, ma prontamente insabbiate. Altrettanto interessante è la riflessione sul ruolo giocato dalla massoneria, un punto di coagulo e di coordinamento dei ceti medi in una realtà a lungo caratterizzata da una bassa mobilitazione politica. Sciolta dal fascismo nel maggio del 1925, l’organizzazione fu in realtà assai tollerata, fatto oggetto di una repressione selettiva e strumentale, a seconda degli interessi e delle personalità da difendere o da discriminare.

Nel complesso, il libro si offre anche come un’opportunità per una riflessione sull’attuale crisi della politica e delle istituzioni, a condizione che si sia pienamente consapevoli che la storia non si ripete mai e che da essa non è possibile trarre regole di condotta per il futuro. La storia non prescrive norme: ci racconta chi siamo, non chi dobbiamo essere. Soprattutto, non ci solleva dalla responsabilità di metterci in gioco e di scegliere. La storia è pre-condizione della libertà, non la sua garanzia. Fornisce domande talvolta inquietanti, non risposte risolutive. Certo, la memoria di ciò che siamo stati aiuta nel cammino. E non è poco.

Il libro di Adolfo mi pare che vada pienamente in questa direzione.


[1] Cfr. Claudia Petraccone, Le “due Italie”. La questione meridionale tra realtà e rappresentazione, Laterza, Bari-Roma, 2005, pp. 79-81.

[2] Cfr. Edward C. Banfield, The Moral Basis of a Backward Society, The Free Press, Glencoe (Illinois, USA), 1958; Robert D. Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori, Milano, 1993. Per un critica convincente di queste impostazioni, cfr. Isaia Sales, Storia dell’Italia mafiosa. Perché le mafie hanno avuto successo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2015, pp. 213 e ss.

[3] Nella nutrita bibliografia dei nostalgici spicca, per capacità dialettiche e manipolatorie della storia, il volume di Pino Aprile, Terroni. Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero Meridionali, Piemme, Milano, 2010. Notevole il suo successo di vendite, nonostante le evidenti falsificazioni. Per la sua stroncatura, senza possibilità d’appello, cfr. Piero Craveri, Terronismo neoborbonico, in «Corriere del Mezzogiorno» del 3 agosto 2010.

[4] Vittorio Daniele e Paolo Malanima, Il divario Nord-Sud in Italia (1861-2011), Rubettino, Soveria Mannelli, 2011; Emanuele Felice, Perché il Sud è rimasto indietro, Il Mulino, Bologna, 2013; Giuseppe Galasso (a cura di), Alle origini del dualismo italiano, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2014.

[5] Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario 1883-1920, 1883-1920, Einaudi, Torino, 1995 (prima edizione 1965), p. 460.

[6] Cfr. Nicola Tranfaglia, La prima guerra mondiale e il fascismo, Editori Associati, Milano, 1996, pp. 155 e ss.

[7] Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario 1883-1920, cit., p. 471.

[8] Cfr. Id., Fascismo e antifascismo. I partiti italiani tra le due guerre, Le Monnier, Firenze, 2000, pp. 25 e ss.

[9] Richard J. Overy, Crisi tra le due guerre mondiali. 1919-1939, Il Mulino, Bologna, 1998, pp. 52 e ss. Cfr. anche Nicola Tranfaglia, Fascismi e modernizzazione in Europa, Boringhieri, Torino, 2001.

[10] Cfr. Simona Colarizi, Dopoguerra e fascismo in Puglia (1919-1926), Laterza, Bari-Roma, 1971.

[11] Cfr. Salvatore Lupo, Potere criminale. Intervista sulla storia della mafia, a cura di Gaetano Savatteri, Laterza, Bari-Roma, 2010, pp. 66-78.

[12] Simona Colarizi, L’opinione degli italiani sotto il regime (1929-1943), Laterza, Bari-Roma, 1991, p. 52.

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