“Letteratura  e altre storie” a cura di Carlangelo Mauro

SPECIALE SU “LETTERATURA LIQUIDA” DI DANIELE MARIA PEGORARI



Daniele Maria Pegorari, professore universitario di Letteratura italiana moderna e contemporanea, con diversi volumi e saggi all’attivo scritti da un’originale prospettiva sociologica, ha pubblicato per Manni Editore un libro intitolato “Letteratura liquida. Sei lezioni sulla crisi della modernità” (2018), libro utilissimo e attualissimo per comprendere le dinamiche culturali di oggi in senso lato. Il volume è qui presentato attraverso un’intervista allo stesso autore e una recensione di Donatella Montemurri. In questa presentazione non potrò che dare una rozza esemplificazione di alcuni temi offerti dalla scansione in sei capitoli, molto densa in realtà di riferimenti anche al cinema, alla musica, ai contesti storico-culturali, organizzata in un discorso quanto mai articolato che qualunque sintesi, accompagnata da citazioni, impoverisce. Consiglio quindi vivamente al lettore di leggere il libro.


Nel primo capitolo, “Postmodernità”, la crisi del moderno vien fatta risalire alla crisi del positivismo. Viene richiamato lo storico inglese Arnold Joseph Toynbee che «sin dal 1947 introdusse il termine ‘postmodernism’ […] per indicare un’irreversibile svolta nella storia occidentale, collocabile intorno al 1875» (nel 1873 ha origine la “Grande Depressione”, prima crisi del capitalismo). Pegorari preferisce, fatte le opportune distinzioni rispetto all’onnicomprensivo e abusato termine ‘postmoderno’, il termine ‘postmodernismo’, già utilizzato dalla critica letteraria del ’30-’40 a proposito della poesia spagnola, per indicare le forme culturali che a partire dal finire del Novecento rompono con la solidità e le certezze della modernità, con il modello delle ‘grandi narrazioni’, forme che hanno origine, insomma, dalla crisi dello storicismo. Sgombrato il campo dal pregiudizio, si può notare come «le nozioni di postmodernità e di postmodernismo si alimentino reciprocamente» e come non si possa oggi prescindere dallo studio di opere e di autori collocabili in questo orizzonte, quali, in Italia, due maestri come Calvino ed Eco (a quest’ultimo Pegorari ha dedicato una monografia: “Umberto Eco e l’onesta finzione. Il romanzo come critica della post-realtà”). Calvino pubblica nel 1979 “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, romanzo che «in quanto estremizzazione della combinatoria narrativa postmodernista […] è una sconfessione fantasmagorica e divertita di ogni storicismo»; Eco pubblica l’anno dopo, il 1980, “Il nome della rosa”, un giallo impiantato nella storia con una «operazione di segno opposto» a quella di Calvino, «ma parimenti interessata a indagare il dissesto della conoscibilità del mondo contemporaneo».


Il secondo capitolo “Riflessività” è incentrato appunto sul rapporto fra arte e reale, fra arte e società; l’arte è specchio della società ma non può esserne considerata un semplice riflesso, né l’opera letteraria è una «“bella” elaborazione di contenuti storico-sociali» bensì ‘riflessione’ sulla realtà e «spazio di conoscenza». Suggestiva la messa a confronto fra due celebri testi, potremmo dire ‘cosmici’, dell’orizzonte della postmodernità, testimonianza della «sfida» rilanciata dalla scrittura «della dicibilità dell’universo», incentrati il primo, “Tutto in un punto” di Calvino, sulla teoria del bing bang e dell’espansione dell’universo, della nascita di spazio e tempo; il secondo, all’opposto, “Aleph”, di Borges, sull’«unità primigenia», una sfera «di quasi intollerabile fulgore» in cui sono concentrati tutti i luoghi della terra. Ma ogni secolo ha lanciato la sua sfida inscrivendosi in «canoni» e «codici» che «sono delle costruzioni sociali». E in una bella sintesi Pegorari li ripercorre a partire dal Rinascimento fino al Realismo terminale, fondato da Guido Oldani negli anni 2000, privilegiando una letteratura che possa opporre una sua «funzione critica, liberatrice e creatrice» contro l’omologazione già denunciata dai pensatori della Scuola di Francoforte.


Il terzo capitolo, “Autorialità”, si apre con un racconto del fallimento della prima teatrale, il maggio 1921, a Roma dei “Sei personaggi in cerca d’autore” di Pirandello, che fu insultato dagli spettatori e invitato a ricoverarsi al manicomio. Ebbene, scrive Pegorari, «da quel giorno i “Sei personaggi in cerca d’autore” di Luigi Pirandello si fissano nella storia della letteratura e del teatro come un mito fondativo della postmodernità». L’opera è un grande e geniale capitolo dell’inettitudine dell’autore novecentesco, inettitudine che non riguarda solo i personaggi, ma la stessa «funzione autoriale» che entra in crisi e viene rappresentata da Pirandello sul piano del metateatro, del teatro nel teatro, parallelamente alla condizione periferica dell’autore nel «processo della produzione dei libri» nella società del tempo. Crisi espressa successivamente dalle forme della critica strutturalista e semiotica che mettono del tutto «in secondo piano la storicità dell’autore». In tale direzione, «nella letteratura postmoderna» vanno collocati «alcuni artifici di nascondimento» dell’autore che assumono un segno diverso, ironico, rispetto al passato, come l’uso dello pseudonimo e dell’eteronomo. Per l’uso dello pseudonimo si parte da Voltaire (François-Marie Arouet) per giungere al romanziere Tommaso Pincio (Marco Colapietro), nato nel 1963, il cui pseudonimo rimanda allo scrittore americano postmodernista Thomas Pynchon. Ecco che «un artificio letterario così tradizionale come la pseudonimia assume gradualmente, nell’età contemporanea, un significato meno innocente: il sovrasenso di cui è portatore riguarda quasi sempre l’inadeguatezza, il conflitto identitario, l’inversione dei rapporti fra realtà e virtualità, fra storia e immaginazione, incrociando così una consuetudine tipica dei nostri giorni, quella del nickname». Passando all’eteronimia, cioè al «ricorso a nomi alternativi da parte di autori già noti», Pegorari comincia dal caso di Domenico Gnoli, storico dell’arte, che per i libri di poesie usava vari eteronimi (Dario Gaddi, Gina D’Arco!, Giulio Orsini), passando per il caso più celebre, quello di Fernando Pessoa, che ne utilizzò quattro per le sue opere maggiori (Álvaro de Campos, Ricardo Reis, Alberto Caeiro, Bernardo Soares), mentre si firmava Pessoa per le poesie in inglese, fino ad arrivare al caso di Elena Ferrante la cui identità rimane tuttora avvolta di mistero. Si passa poi alla «terza manifestazione fondamentale di questa malattia dell’autore, nella forma dell’autofiction», in cui l’autore stesso diventa il protagonista di una falsa narrazione; un esempio oggi molto noto in Italia è quello dello scrittore e studioso Walter Siti. La «quarta forma di latitanza autoriale» sono gli «pseudobiblìa»; dalle biblioteche immaginate e narrate di Calvino, Borges, passando per “Il centunesimo canto di Dante di Luca Chiti” (un falso costruito con 151 endecasillabi autentici della “Commedia”), si arriva all’”Enciclopedia degli scrittori inesistenti 2.0”, pubblicata nel 2012, a cura di Giancarlo Marino e Aldo Putignano, con tante schede di biografie, riviste o premi: tutto rigorosamente falso. Il volume, per Pegorari, è «la manifestazione più esemplare di questo allegro funerale dell’autore in cui si è trasformata la letteratura della società liquida». La quinta forma della debolezza dell’autore e della sua contemporanea metamorfosi in «funzione industriale» è il «fenomeno dei “collettivi”». Dopo aver citato i casi più tradizionali di libri scritti a quattro mani, come Fruttero e Lucentini, seguono i casi dei Wu Ming (preparato dal Luther Blissett Project), di Quindici e Kai Zen, che nell’era delle rete e della contestazione del diritto d’autore proliferano ma con risultati alla lunga che sembrano «il più delle volte un cinico cedimento alle logiche del mercato», come nel caso della successiva storia editoriale dei Wu Ming, facilmente identificabile.


Nel capitolo quarto, intitolato “Interesse”, è presentata la debolezza del personaggio inetto del romanzo novecentesco, esemplificata da Zeno Cosini, protagonista del celebre romanzo di Svevo. Esso costituisce il paradigma, il «prototipo dell’identità liquida contemporanea»; incarna «il mito del mediocre», o l’«eroe per caso» che risulta vincente perché la storia collettiva e individuale prendono una direzione del tutto diversa rispetto alle sue aspettative (il commercio e la speculazione di guerra, infatti, “guariscono Zeno”, contrariamente a ciò che aveva previsto o atteso, né il trattamento psicanalitico gli ha giovato). Anche il suo matrimonio con Augusta ‒ rivelandosi l’innamoramento per Ada una illusione ‒ è un «matrimonio di interesse». Ma questo aspetto dell’‘inter-esse’, etimologicamente «ciò che sta in mezzo fra l’investimento (materiale o esistenziale o sentimentale) e la condizione finale cui è approdato il nostro sforzo», secondo Pegorari non va demonizzato poiché conserva degli aspetti positivi. Appare più malata e debole, rispetto a quella di Zeno, la condizione dell’autore oggi assorbito dalla «filiera del libro». Nell’industria culturale il campo di interesse «venale», della produzione del libro, dell’inseguimento a tutti i costi dell’orizzonte di attesa dei lettori, prevale oggi su quello «cognitivo», che costituisce invece «il fine dell’invenzione testuale», della ricerca di bellezza, di pensiero critico e di inventività e originalità da parte dell’autore. Risultano dominanti varie strategie editoriali e pubblicitarie, processi di mediazione tra l’editore e l’autore, quali quelle esplicate soprattutto dalla figura dell’agente letterario, a fianco dell’editor e delle «revisioni redazionali» che oggi spesso approdano a una manipolazione del testo ancor prima del contratto finale. Di fronte a tutto ciò «sarà il caso» per l’autore «di non farsi intrappolare dall’alternativa radicale fra l’asceta disinteressato e il servo sciocco del mercato: il letterato deve orgogliosamente riconoscere i propri specifici interessi e – specularmente al discepolo del vecchio Malfenti ‒», cioè Zeno, «non deve avere il rimorso di non averli perseguiti». Molto gustose e assolutamente da leggere le pagine su un altro aspetto negativo che concerne la debolezza dell’autore, quello della sua «prostituzione» oggi nell’ambito della spettacolarizzazione della letteratura o «eventistica», la catena di manifestazioni e festival letterari che non portano né a un aumento dei profitti né a una maggiore diffusione del libro o della lettura consapevole. «Questo nuovo apparato “eventistico” si sposa molto bene con gli interessi altrettanto autoreferenziali dell’amministrazione politica contemporanea: si organizzano manifestazioni pubbliche affinché un sindaco, un assessore, un presidente, un alto dirigente possa dire di averlo fatto e possa avvalersene in termini di acquisizione del consenso».


Nel quinto capitolo, “Sincerità”, il tema è quello della «falsità innaturale» che «prende il posto della realtà, diventa post-reale» come si evince dalla scena del dottor Bracco, nel film “La grande bellezza” di Sorrentino, che in un maestoso salone di chirurgia estetica, spazio sacrale come quello di una Chiesa, inietta il botulino. Per Pegorari «le iniezioni seriali di botulino possono valere per noi come una metafora della continua immissione nella realtà di fattori di falsificazione» e la domanda è se la letteratura oggi sia complice o vittima di questo processo. La letteratura di genere o commerciale o di consumo (il giallo e il poliziesco, l’horror, il rosa ecc.) partecipa da un lato della realtà e dell’ordinarietà per far immedesimare facilmente il lettore, dall’altro sconfina nel fantastico, come nel romanzo di avventure, per far uscire il lettore e lo spettatore dall’“ora e adesso” e donargli la libertà dell’uscita dalla prigione dell’ordinarietà. Da Kipling, Salgari e i racconti di mistero ottocenteschi di Eugene Sue e Alexander Dumas, fino ai fumetti di Spiderman e dei supereroi – riabilitati da Eco in “Apocalittici e integrati” – e al cinema, si può notare questo oscillare tra il realismo e il fantasy, per cui «Spiderman che sgomina una banda di rapinatori non è che l’evoluzione appena più fantasiosa del romanzo di mistero ottocentesco, in cui il male viene cancellato grazie all’intervento di un uomo speciale». Forme dell’immaginario che si sono poi tradotte nella società a noi contemporanea nel costume di massa giovanile del ‘cosplaying’, il travestimento nell’eroe preferito, altra variante della «liquefazione post-reale delle identità» nel «carnevale […] permanente» dell’oggi. In letteratura, le forme recenti, duemillesche, della letteratura di genere e commerciale, comunque ‘eroica’, che sia poliziesca o fantascientifica, o, su altro versante dell’‘autofiction’, con il loro iperrealismo svolgono «una funzione consolatoria» […] a spese di una diretta esperienza della realtà», di cui il lettore viene deprivato, deresponsabilizzato come i personaggi della farsa di Luigi Lunari, nota soprattutto per il titolo “Non so, non ho visto, se c’ero dormivo” (1967). Per questo il capitolo si conclude, circolarmente, con un invito a una sincerità e a una realtà di segno opposto, in letteratura e in società, non svuotate né virtuali: la cura della “iniezione di realtà” è l’unico antidoto all’avvelenamento antropologico, alla «botulinizzazione» in atto (come a dire che in quel salone insomma del dottor Bracco de “La grande bellezza” ci siamo, in fin dei conti, tutti noi).


L’ultima lezione, intitolata “Resistenza”, si apre con un’analisi del monologo teatrale “Novecento” di Baricco, storia ambientata su un translantico, il Virginian, tra il 1927 e il 1933, in cui il protagonista il pianista Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento, nato e cresciuto su quella nave, che rifiuterà alla fine di scendere a terra preferendo morire su di essa, è allegoria di un’epoca, della «demolizione di ogni certezza, della vertigine che prende l’uomo contemporaneo che non può incidere nulla di durevole e che anzi deve fare in fretta a dimenticarsi non solo «dov’era», ma anche «chi era», ma, al contempo, anche di una resistenza, di un rifiuto verso «un’ideologia dominante». La storia di Novecento è confrontata, specularmente, con quella di Sebastian, il pianista jazz del film, “La la land” del 2017. Il sogno del jazz di Sebastian si pone allegoricamente come alternativa al seriale e alla logica del profitto industriale, del facile guadagno. Il pianista accetta momentaneamente, per esigenze economiche, un contratto con una band pop, salvo poi rifiutare questo compromesso, ritrovando la sua musica, la sua autenticità. Dal jazz e dal cinema il discorso ritorna sulla letteratura, sulla cultura di massa, passando per Adorno, la scuola di Francoforte fino a Mario Perniola e a poeti filosofi meno conosciuti come Flavio Ermini, al romanziere e saggista Giuseppe Lupo. L’orizzonte comune è quello di un «invece», di un rifiuto, della resistenza cioè «alla sostituzione della storicità con una mera percezione determinata dalle costruzioni mediatiche» attraverso una letteratura che sia capace di ritrovare un senso e una funzione all’interno della complessità del presente, decodificando i brandelli rimasti dopo la distruzione della totalità, come fa Aldso nel finale del Nome della rosa, che ripete il gesto del suo maestro Guglielmo da Baskerville dopo l’incendio della Biblioteca: «Invece la letteratura, che non sa concepire se stessa se non attraverso il dialogo con la tradizione, la conservazione e l’accumulo di saperi, codici e strutture linguistiche secolari, costituenti una sorta di riciclo “ecologico” dei frammenti di storia, è l’arte della paziente raccolta di brandelli, fogli, lacerti, ‘disiecta membra’, che solo uno sguardo distratto e indifferente può relegare ai margini del nostro spazio vitale, mentre custodiscono ancora un messaggio da decodificare».

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INTERVISTA A DANIELE MARIA PEGORARI SU “LETTERATURA LIQUIDA”


Letteratura liquida cosa deve all’opera e al pensiero di Zygmunt Bauman?

Con i suoi lavori precedenti – soprattutto “Il disagio della postmodernità”, del 1997 – Bauman aveva già offerto una chiave di lettura del contemporaneo molto più convincente rispetto alle precedenti teorie di Lyotard e Jameson, ma con “Modernità liquida2 (2000) agisce con straordinaria intelligenza linguistica: aggira l’ostacolo di quel prefisso ‘post’ (indigesto a molti) affiancando al termine «Modernità» un aggettivo che di fatto lo contraddice e lo svuota. I testardi sostenitori della modernità sono stati così accontentati, ma in effetti il grande sociologo stava descrivendo un colossale smottamento degli assetti antropologici a partire dagli anni Ottanta. In “Letteratura liquida” faccio tesoro di questa teoria, ma al contempo ne vedo i primi segnali quasi un secolo prima, col fallimento del Positivismo.

«Postmoderno sarai tu e tua madre!» È una battuta del romanzo di Péter Esterházy. È tanto una brutta parola quindi?

Il dibattito critico prevalente nel Novecento – e purtroppo ancora oggi in Italia – registra una certa paura di ammettere la nostra postumità rispetto alla civiltà cinque-ottocentesca, come se riconoscersi postmoderni significhi arrendersi a una visione nichilistica, insensata o disperata del mondo. Non è un caso che la diffidenza nei confronti della parola ‘postmodernità’ venga soprattutto dalle correnti più ideologicamente strutturate. Per me è esattamente l’opposto: riconoscersi orfani di una visione totalizzante fondata sulla persona e sulla sua capacità di conoscere e modificare il mondo (nel che risiedeva la tradizione moderna), significa avere maggiore lucidità nell’avvertimento dei rischi del presente e attrezzarsi a muoversi nel mondo della complessità. Siamo passati da una visione labirintica dell’esistenza a una rizomatica, dall’enciclopedia dei saperi alla connessione delle informazioni: tutto questo non è per niente moderno.

La prospettiva sociologica risulta predominante nel libro. Affermi infatti: «sono venuto convincendomi che un contemporaneista non può non essere anche un sociologo della letteratura».

Gode oggi di poca fortuna anche l’espressione ‘sociologia della letteratura’, come se questo indirizzo ‘tradisse’ la scrittura e gli autori. Ma come può un contemporaneista, uno studioso dell’età della società di massa non porsi il problema di quanto la produzione sociale sia in relazione biunivoca con la letteratura che crea e anche con quella del passato, che ridefinisce in un canone che è la proiezione dell’immagine che essa ha di sé? Com’è possibile studiare la letteratura contemporanea senza conoscere le logiche del mercato e il ruolo dominante che da almeno tre quarti di secolo hanno i sistemi editoriali? Avere un’ottica sociologica non significa applicare alla letteratura rozze metodologie provenienti dalle scienze sociali; al contrario, significa fare una “critica letteraria della società”. In tal modo la letteratura è rispettata nel suo statuto – che è testuale, stilistico, immaginativo –, ma diventa uno ‘specchio oscuro’ della realtà: ne svela il volto nascosto, le confessioni volontarie e involontarie. Nessuna scienza ‘esatta’ può ottenere questo risultato.


Tra le parole-chiave, cui sono dedicate le “Sei lezioni”, la terza è Autorialità. E’ morto l’autore, come scriveva Barthes nel fatidico 1968, o è resuscitato in altre forme?

La crisi dell’autorialità ha avuto diverse declinazioni e la formula contenuta nel saggio di Barthes è solo quella più celebre. Lo stesso teorico francese, in “S/Z” (1970), citava una concezione che risale a quell’aurora del moderno che è stato l’Umanesimo, per la quale l’‘auctor’ è la quarta e più alta funzione letteraria, dopo quelle dello ‘scriptor’, del ‘compilator’e del ‘commentator’. Vero autore sarebbe solo chi è in grado di farsi organizzatore di senso, e così in effetti è per tutta l’età moderna. Dal Decadentismo in poi l’abdicazione dell’autore alle sue prerogative è un altro sintomo di quella frattura di civiltà che muove la mia ricerca. Il paradosso è che la grandezza di molti autori è consistita nella lucidità con cui hanno rappresentato questo disagio intellettuale e sociale: i capolavori di Pascoli, Pirandello, Gozzano, Buzzati, Gadda, Montale, Moravia, Pasolini, Calvino, Volponi, Rosselli, Sanguineti non sono che la confessione di un’inettitudine che l’autore condivide con l’uomo del suo tempo.

Nel capitolo quarto, “Interesse”, scrivi che Zeno, il personaggio di Svevo, «è il prototipo dell’identità liquida contemporanea». Davvero siamo noi Zeno Cosini?

Di questa storia postmoderna come civiltà dell’inetto l’esemplare più fulgido (restando all’Italia) è il protagonista dell’ultimo romanzo di Svevo, perché oltre all’inadattabilità sociale, alla debolezza e alla velleitarietà di altri personaggi simili, egli ha un altro carattere rappresentativo del nostro tempo: alla fine del romanzo Zeno è, inaspettatamente, un vincente, ma non per suo merito. Il caso generale ha disposto fortuitamente che egli si trovasse in una situazione di vantaggio rispetto a uomini più brillanti di lui; è questo è uno stigma tipico della nostra società, in cui non c’è posto per una dimensione epica, si è, al massimo, eroi per caso, perché la ruota della fortuna si è fermata al momento opportuno o perché si è aperto ‘il pacco giusto’. La modernità si era aperta con un teorico del rapporto fra fortuna e virtù (Machiavelli), mentre la postmodernità è il tempo dell’inutilità della virtù e del trionfo della stocastica, in cui, più che l’etica, servono gli algoritmi.

Nell’ultima lezione, “Resistenza”, leggiamo: «È necessario, allora, che [la letteratura] sia ‘resistente’, cioè faccia attrito rispetto all’evanescenza di ogni cosa, ritrovi il suo ‘realismo’». Un auspicio o a quali autori il lettore può fare oggi concretamente riferimento?

È una percorribile indicazione di rotta, oltre le secche ormai insostenibili del neo-orfismo. Per realismo non intendo necessariamente una poetica mimetica, ma una visione fondata sulla conoscibilità e sulla sensatezza del reale, che va protetto dalle mistificazioni. Nel primo decennio di questo secolo erano ancora attivi due ‘grandi vecchi’ che hanno raccontato questo conflitto fra storia ed errore, ponendosi sempre dalla parte della realtà e della persona: Mario Luzi e Umberto Eco. Sono stati l’inevitabile termine di paragone anche per chi ha scelto strade lontane, dal plurilinguismo degli ‘incroci’ al realismo terminale al romanzo di affabulazione antropologica. Ma per il futuro? Dovremmo cercare gli autori di riferimento fra i nati dagli anni Settanta, nei quali, al contrario, trionfa il minimalismo, spacciato per emulazione della letteratura americana, che invece ha sempre avuto un respiro molto più alto (penso a romanzieri come Toni Morrison e Cormac McCarthy e a poeti come Robert Lowell e Ron Padgett). Il ‘mainstream’ italiano di oggi è il trionfo della furbizia, del romanzo stagionale confezionato apposta per il premio o per l’adattamento cinematografico e persino la poesia, ahimè, si è messa all’inseguimento dei social (si parla di ‘twitteratura’). D’altra parte, nell’epoca in cui la ‘produzione sociale’ dei conflitti viene affrontata con una ‘privatizzazione delle soluzioni’, cioè in un momento storico in cui l’uomo è solo dinanzi alle catastrofi quotidiane, nessuno cerca in un libro le istruzioni per l’uso della vita. E se il lettore non le cerca, il mercato editoriale non gliele procura.

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RECENSIONE DI MARIA DONATA MONTEMURRI A “LETTERATURA LIQUIDA”

«È tempo di contrastare la ‘botulinizzazione’ dell’identità, dell’ambiente, della cultura e dell’economia, operata da varie pratiche di adulterazione formale, che sono l’altro volto di un processo di avvelenamento; e occorre farlo attraverso ‘un’iniezione di realtà’. La letteratura può consentirne la riuscita, se al conformismo del mercato saprà opporre pervicacemente una resistenza dell’autentico e dell’umano» (p. 147). Con questo forte e appassionato invito si conclude la lezione sulla “Sincerità”, la quinta delle sei che Daniele Maria Pegorari propone in questo libro «sulla crisi della modernità» (Manni editori, San Cesario di Lecce 2018) che si rivela un’analisi del concetto di letteratura, attraverso sei capitoli: sei chiavi di lettura che mettono in questione un graduale processo di trasformazione, iniziato nell’ultimo quarto dell’Ottocento, che suggerisce per il presente l’uso dell’espressione ‘letteratura liquida’, in quanto specchio di una società caratterizzata dal più imponente flusso di informazioni di massa mai verificatosi nella storia. Nella società contemporanea, infatti, sembra che l’imperativo dominante sia quello di decostruire, spaesare, decontestualizzare il senso del sé: i confini si dilatano fino a disperdersi completamente, diventano fluidi, l’unità si trasforma in una pluralità di interpretazioni e di letture che premiano la superficialità, l’apparenza e la forma che si sostituiscono alla sostanza e al contenuto.
Il saggio propone un’attenta e sottile analisi teorica, con una scrittura così curata nei dettagli da scoraggiarne un approccio sommario. Pegorari non si limita alla trattazione dell’aspetto più squisitamente letterario, ma spazia dal campo economico a quello sociologico trattando con maestria temi quali l’impatto delle moderne tecnologie e il rapporto tra queste ultime e la letteratura, i meccanismi attraverso cui l’opera letteraria si rapporta al pubblico dei lettori/fruitori, le dinamiche del mercato librario e la loro influenza sulla produzione letteraria, il ruolo dell’autore e l’ipotesi di una sua crisi nel corso del Novecento, il tutto esposto con una finezza che, sollecitando la curiosità e l’interesse del lettore, ne polarizza l’attenzione attraverso riferimenti autorevoli (Calvino, Eco, Barthes, Bauman sono solo alcuni nomi), lo accompagna da una lezione all’altra e ne stimola la riflessione critica.
Pegorari ravvisa l’inizio del graduale processo di alienazione del sé nel tempo della crisi del Positivismo quando, forse per la prima volta, il mondo apparve inconoscibile ed estraneo: di lì il passo alle poetiche del Decadentismo, che videro la prima manifestazione dell’inettitudine come della patologia narrata da Svevo, in un mondo dilacerato da guerre, crisi politico-economiche e dittature, fu breve. A tal proposito, è di particolare fascino e di forte impatto l’immagine metaforica posta alla fine della prima lezione, “Postmodernità”, dove, riferendosi esplicitamente al viaggio compiuto da Dante nell’“Inferno”, si legge: «oggi l’individuo erra solitario tra le peripezie rizomatiche del mondo, senza speranza di essere soccorso da una guida, giacché nessuno conosce lo schema del rizoma. Tutt’al più potrà imbattersi in qualche compagno di strada, dannato come lui a girare a vuoto in un cerchio infernale, in un set televisivo o in un profilo social» (pp. 28-29). Emerge, forte, l’immagine dell’uomo postmoderno che vive nell’alienazione di una società labirintica e dispersiva, in cui si sente profondamente e perennemente spaesato: l’angoscia esistenziale, derivante da questa condizione, viene messa a tacere dal culto dell’immagine e dell’apparire, nel gioco delirante di una ‘logica del nulla’, espressione di una società senza spessore e profondità.
Lo studioso si affida qui alla celebre immagine proposta da Calvino ne “La sfida al labirinto”, saggio apparso nel 1962 sulla rivista «Menabò», laddove la letteratura viene proposta come lo strumento adatto a interpretare lo smarrimento dell’uomo in una società contemporanea sempre più labirintica e aggrovigliata: essa, secondo Calvino, può solamente definire l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita, anche se questa non sarà altro che il passaggio da un labirinto all’altro. Si tratta di entrare nel labirinto, cioè di essere all’altezza della problematicità e della complessità dell’oggi ma, nello stesso tempo, di non restare prigionieri del suo fascino, di sforzarsi di conoscerlo e di uscirne. Il senso è quello di una sfida, rispetto alla quale la letteratura si pone come il mezzo, la mappa per affrontare quell’intricata selva che è la realtà che ci circonda.
Alla luce di queste considerazioni, sorge un interrogativo: quali caratteristiche deve possedere la letteratura per sopravvivere alla spirale di inettitudine alla vita che sembra ingoiare il mondo e in che modo essa deve agire per trasformarsi in uno strumento salvifico? Il quesito circa la natura della letteratura, la sua funzione, il suo campo d’indagine costella l’intero saggio: se volgiamo lo sguardo al passato, emerge distintamente come essa sia sempre stata, contemporaneamente, riflesso della società in cui si genera e riflessione su di essa. «Se la parola saprà ‘riflettere su’ questo presente, senza ridursi al suo alienato e umiliato ‘riflesso’, allora forse avremo messo in salvo la sua funzione critica, liberatrice e creatrice» (p. 59): questo è il monito che conclude la seconda lezione, intitolata “Riflessività”, in cui si evidenzia come il lungo processo di trasformazione della letteratura sia partito dall’influenza esercitata dal contesto sociale di riferimento, tracciando un excursus che parte dall’“Orlando Furioso” di Ariosto e giunge al “Realismo terminale”, movimento nato nel 2010 ad opera di Guido Oldani, con l’intenzione, secondo le parole del suo primo sodale Giuseppe Langella, di «incidere sui processi antropologici e sui costumi sociali» e di «diventare gli specchi ustorii del mondo in cui viviamo» (p. 59).
Nel frattempo c’è stato il Seicento barocco, in cui il fine della scrittura è stata la creazione della meraviglia attraverso l’uso delle parole; poi, durante il Settecento illuminista e il suo razionalismo, la letteratura è diventata strumento di promozione sociale, civile e morale, grazie alla diffusione di trattati di natura politica e sociale, per giungere all’età del Romanticismo, stagione nella quale il romanzo non ha goduto in Italia della stessa fortuna ottenuta negli altri Paesi europei, a causa della scarsa presenza di quella classe borghese che ne era, insieme, protagonista e fruitrice. Laddove e quando la società borghese può imporsi, essa determinerà un inedito condizionamento per lo scrittore, il quale dovrà confrontarsi con le richieste di un mercato sempre più ampio ma, al contempo, caratterizzato da una preparazione culturale sempre più superficiale.
Dall’inizio del Novecento in poi la letteratura di consumo si è sempre rivolta al lettore «inteso come consumatore medio, cioè di competenza linguistica media, di istruzione media, di gusto medio, di disponibilità media alla spesa e di desideri medi; è il consumatore che viene restituito attraverso i sondaggi di mercato e, oggi, soprattutto attraverso la nostra identificazione digitale, ovvero il flusso di informazioni sulla nostra vita che inconsapevolmente introduciamo nella rete» (pp. 129-130). La letteratura di genere, in particolare, pare orientata al soddisfacimento del suo bisogno di distrazione, collocando in secondo piano la stimolazione di una riflessione critica sul contesto sociale, economico e politico in cui egli stesso è inserito: «Il momento di massima espansione democratica dei consumi culturali coincide col massimo grado di addomesticamento delle differenze, dei linguaggi, degli stili, spuntando le armi all’antico status dell’artista come ‘diverso’, ‘alternativo’, ‘irriducibile’» (p. 164). Ecco che mai come oggi, la vera tirannide consiste in un modo di fare comunicazione che nega la credibilità del punto di vista, prolifera a dismisura nello spazio illimitato della rete, partorendo delle verità molteplici che riempiono la nostra vita quotidiana e trasformano la società dei consumi e dell’immagine nell’ultimo dei totalitarismi, terreno fertile allo sviluppo di una visione sociale distopica. A dimostrazione di quanto sia incidente questo riflesso/riflessione della letteratura sulla società, non si può non considerare il forte impatto che la psicanalisi di Freud, nei primi del Novecento, avrà sulla produzione letteraria: si spalancheranno al romanzo le porte della nevrosi, della follia, dell’inconscio.
Ad essere inetto non sarà solo il personaggio del romanzo: «Zeno è il prototipo dell’identità liquida contemporanea, è il mito del mediocre» (p. 98), scrive Pegorari, ma sarà lo stesso autore novecentesco a dover dichiarare la propria incapacità di aderire alla vita. Ecco che si può ravvisare nei “Sei personaggi in cerca d’autore” «il mito fondativo della postmodernità», ovvero «l’ammissione di impotenza dell’autore novecentesco a seguito della scoperta di essere egli stesso (e non solo i suoi personaggi) inetto, inaffidabile, inconcludente, incapace di dare una forma alla complessità del mondo circostante» (p. 64). Al concetto della crisi dell’“Autorialità”, quale tratto caratterizzante della postmodernità, è dedicato il terzo capitolo che individua, nell’utilizzo di alcuni escamotage letterari, quali la pseudonimia, l’eteronimia, l’autofiction, gli autori collettivi e gli pseudobiblìa, la prova concreta di quanto questa crisi abbia corroso il ruolo dell’autore, depotenziandolo rispetto al passato.
Il capovolgimento degli schemi della tradizione letteraria toccherà l’apice con le esperienze di avanguardia come quella del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti che si spingerà fino al rifiuto del culto dei modelli classici per rivendicare la forza creatrice dell’arte e la sua libertà dalle regole e dalle convenzioni formali: è questa, in embrione, l’idea che successivamente sarà teorizzata da Adorno nella “Teoria estetica” del 1970, secondo cui la letteratura rappresenta una via di fuga dall’omologazione e dal conformismo della cultura di massa, a patto che essa non ceda all’illusione dei «subiti guadagni». Questo aspetto ‘resistenziale’ della letteratura è argomento della sesta e ultima lezione, intitolata “Resistenza”, per l’appunto, in cui emerge come la letteratura possa farsi baluardo di «possibili modelli di azione» o «modelli di azioni possibili», solo se avrà la forza di trarsi fuori dalla logica di mercato, rivendicando la libertà dell’autore, la riconquista di un ruolo che appare attualmente strozzato dalle leggi dell’omologazione: è un problema particolarmente sentito dal nostro tempo, in cui assistiamo (nella maggior parte dei casi inconsapevolmente) allo svilimento della nostra identità di meri consumatori tecnologici, mentre gli agenti economici standardizzano i nostri interessi e i nostri consumi, attraverso il controllo digitale dei siti che visitiamo e degli acquisti che effettuiamo.
Ma proprio perché fare letteratura oggi significa confrontarsi con le dinamiche del consumo, Pegorari non giunge a queste conclusioni prima di aver ragionato sulla trasformazione del rapporto tra scrittura ed editoria, a cui è dedicata la quarta lezione, “Interesse”: mentre in passato le anime del letterato e dell’editore convivevano nella stessa persona (si pensi, per esempio, allo stampatore veneziano Aldo Manuzio), nell’odierno capitalismo informazionale il processo editoriale è sbilanciato a favore dell’aspetto imprenditoriale, con la mediazione di una terza figura, quella dell’agente letterario, il cui operato incide notevolmente sul contenuto del testo, al fine di renderlo più commerciabile. Tutto questo pone lo scrittore in uno stato di sudditanza, forse irrimediabile, nei confronti di una filiera che ha come unico scopo la vendita del libro.
Alla luce delle argomentazioni che animano i diversi capitoli del saggio emerge chiaramente quanto sia simbiotico il nesso tra letteratura e sociologia, tanto in epoche passate quanto in quella odierna, nella logica di un rapporto in cui la letteratura, rimanendo fedele al suo statuto, si pone come serio strumento di indagine della società, consentendo di sostenere l’urto violento e fuorviante dei molteplici canti da cui ci metteva in guardia Cicerone nel “De finibus bonorum et malorum”: sono le ammalianti voci delle Sirene che incantano le nostre vite e minacciano di ingoiarci in una spirale senza fine.



NOTE BIOBLIOGRAFICHE
Maria Donata Montemurri è nata nel 1975 a Gioia del Colle, dove è docente di lettere presso l’I.I.S.S. “Canudo- Marone-Galilei”. Allieva di Domenico Cofano, ha collaborato dapprima con la sua cattedra di Filologia e critica dantesca e oggi con quella di Sociologia della letteratura nell’Università degli studi di Bari “Aldo Moro”. I suoi interessi riguardano oggi il campo della letteratura contemporanea.

Daniele Maria Pegorari (1970) è professore di letteratura italiana moderna e contemporanea nell’Università di Bari “Aldo Moro” e autore o curatore di una ventina di libri e numerosi studi che spaziano dalla sociologia della letteratura alla tradizione dei modelli e alla poesia in lingua e in dialetto. Ricordiamo tre libri su Mario Luzi (1994, 2002 e 2006), il “Vocabolario dantesco della lirica italiana del Novecento” (2000), “Critico e testimone. Storia militante della poesia italiana 1948-2008” (2009), “Les barisiens. Letteratura di una capitale di periferia 1850-2010” (2010), “Il codice Dante. Cruces della ‘Commedia’ e intertestualità novecentesche” (2012), “Umberto Eco e l’onesta finzione. Il romanzo come critica della post-realtà” (2016), “Scritture precarie. Editoria e lavoro nella grande crisi 2003-2017” (2018), “Letteratura liquida. Sei lezioni sulla crisi della modernità” (2018), “Amleto o lo specchio oscuro della modernità. Tre secoli di riscritture italiane 1705-2019” (2019) e, con Valeria Traversi, “Il futuro in una stanza. Dialogo letterario dentro e oltre la pandemia” (2020). Svolge un’intensa attività di critico militante come direttore della rivista «incroci» e di alcune collane, come promotore di eventi pubblici e collaboratore o referente di diverse testate.

Carlangelo Mauro



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1 commento

  1. Seguire il Prof. Pegorari e la Prof.ssa Montemurri è sempre motivo di arricchimento e riflessione. Grazie per questa ulteriore opportunità.

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