di Francesco Raffaello De Martino



La democrazia rappresentativa non è costituita esclusivamente dai numeri. Essa, infatti, si caratterizza o, almeno, dovrebbe caratterizzarsi anche per la qualità, e non solo la quantità, della sua componente politico-parlamentare. Del Parlamento, cioè, dovrebbero far parte solo personalità dallo spessore politico-culturale adeguato alla complessità dei problemi da fronteggiare, selezionati opportunamente nei più vari ambiti di competenza, e solo dopo aver compiuto il cd. cursus honorum, al fine di dare il proprio contributo all’elaborazione delle decisioni in grado di influenzare i destini della comunità politica.
Tale profilo, tuttavia, è ormai desueto in ragione di logiche e di pratiche che non rispettano neanche lontanamente la pur minima e necessaria selezione. Vale a dire una regola che dovrebbe orientare sempre la composizione delle liste dei candidati ai seggi, tale da porre le premesse per favorire la formazione di una buona classe parlamentare (1) che, al contrario, non sembra più all’altezza del proprio compito. Evidentemente, non si invoca l’elezione di un Parlamento elitario (2) , ma piuttosto la formazione di un’Assemblea rappresentativa in cui possano sedere personalità capaci di favorire l’avanzamento del Paese entro le coordinate, e secondo la pluralità di fini, espresse dalle disposizioni costituzionali.
E’ opinione molto diffusa, anche a causa di un’informazione e di una propaganda martellanti, che il Parlamento sia oggi un luogo di perditempo, costituito, cioè, da persone inoperose di cui sarebbe opportuno sbarazzarsi, sminuendo gravemente le ragioni della rappresentanza politica e dell’Istituzione parlamentare in sé considerate.

Tali posizioni sono molto ricorrenti nello scontro politico. Queste ultime, infatti, amplificano quei sentimenti di accentuata ed emotiva reazione agli indistinti mali della politica, etichettata come inconcludente, velleitaria, lontana dalle istanze della collettività, arroccata su sé stessa alla ricerca di equilibri instabili, frutto della mancanza di una visione chiara dei problemi e dei loro rimedi: in altre parole, la cd. antipolitica. Siffatti orientamenti, invero, disprezzano e denigrano l’attività politica in quanto tale, confondendo e sovrapponendo questioni tra loro assai distinte come, ad esempio, la capacità rappresentativa, il ruolo e la posizione dei partiti e del Parlamento nel sistema democratico rappresentativo (3) e le loro qualità intrinseche, ovvero la capacità di essere all’altezza dei compiti che la Costituzione gli riconosce. Quest’ultimo profilo, evidentemente, appare decisivo perché è stata proprio la progressiva erosione di quel requisito, cioè lo scadimento della classe politica, a favorire la diffusione di una sentimento antipolitico che si direbbe inarrestabile.


Tali tendenze non sono nuove perché, per alcuni profili, risalgono agli esordi del Parlamento repubblicano, oggetto di critiche impietose da parte di una cultura antiparlamentare di destra ben radicata. Invero, sembrano evidenti certe analogie con la propaganda del Fronte dell’Uomo qualunque (4) . Un partito, come è noto, apertamente anticomunista che nel 1946, facendo leva sull’ampia sfiducia nei partiti, espressa da una parte dei ceti medi del centro-sud, ottenne un rilevante risultato elettorale, entrando anche in Assemblea costituente. Questo movimento dopo il 1948 scomparve. Tuttavia, non sembrano scomparsi i sentimenti striscianti di antipolitica che esso rappresentò e che ne caratterizzarono la nascita, presentando talune contiguità con l’antiparlamentarismo del precedente ventennio fascista.
Vero è che l’antipolitica, insieme con il populismo di varia matrice e natura, è tornata in auge prepotentemente ispirando la modifica di ben tre disposizioni costituzionali che hanno ridimensionato la composizione della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica. Difatti, mediante il referendum costituzionale del settembre 2020 sono stati revisionati gli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione stabilendo il numero di quattrocento deputati e di duecento senatori. Analogamente, i senatori a vita saranno massimo cinque; vale a dire che il Capo dello Stato è stato spogliato di quest’attribuzione nella misura in cui in Senato siano già presenti cinque senatori a vita. Il ridimensionamento interessa anche la rappresentanza estera: i deputati passano da dodici a otto e i senatori da sei a quattro.
Come si sa l’argomento prevalente dei riformatori faceva leva sull’opportunità di ridurre la composizione numerica del Parlamento sia al fine di contenere i costi della politica sia, allo stesso tempo, per rilanciare l’Istituzione parlamentare perché, a loro dire, la diminuzione del numero dei parlamentari favorirebbe la scelta più attenta del personale politico-parlamentare e migliorerebbe i lavori dell’Aula.
Nondimeno, entrambi gli argomenti sono destituiti di fondamento, e anche pericolosi. Anzitutto perché la democrazia parlamentare non si misura sui suoi costi (peraltro irrisori se rapportati alla spesa pubblica del Paese) ma anche per la ragione elementare che, riducendo la spesa per il funzionamento delle Istituzioni politiche, si corre il rischio di comprimere la democrazia stessa che non può essere associata ad una logica aziendalista.
Inoltre, il ridimensionamento del numero dei parlamentari, a meno che non siano adottate iniziative virtuose (per la verità assai di là da venire), può comportare l’involuzione ulteriore della selezione dei parlamentari, evocando prassi di un passato non certo glorioso. Si ricorderà, infatti, che almeno dagli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso le liste dei partiti, in molte circostanze anche a sinistra, furono elaborate tenendo conto soprattutto del bacino elettorale, e dunque la quantità di voti, che ciascun candidato era in grado di “portare” al partito.

Enrico Berlinguer

I mezzi necessari per guadagnare i consensi passarono in secondo piano, tanto è vero che Enrico Berlinguer nel 1981, in un duro atto di accusa contro quei partiti (5) , pose il problema della Questione morale che aveva ormai gravemente investito la vita pubblica italiana (6) . Vale a dire una logica distorta che condusse ad una forte diffusione del clientelismo, e nella fase più avanzata di quel periodo, alle indagini della magistratura che provocarono l’estinzione di alcuni partiti fondatori della Repubblica, come il PSI e la DC.
D’altra parte, la riduzione lineare del numero dei parlamentari produrrà l’effetto ulteriore della sotto rappresentazione di numerose realtà territoriali che subiranno la compressione della loro rappresentanza in Parlamento. Tale esito è paradossale perché quasi tutte le forze politiche presenti in Parlamento si professano autonomiste, invocando spesso le esigenze dell’autonomia regionale e locale.
Ancora, bisogna ricordare che il disegno di legge di revisione costituzionale AC n.2452 del 16 gennaio 1985 (7) a firma degli On.li Gianni Ferrara, Stefano Rodotà e altri, talvolta impropriamente richiamato come precedente idoneo a giustificare la riduzione del numero dei parlamentari, propose, secondo una consolidata posizione della sinistra, la riforma “unicamerale” del Parlamento e del sistema delle fonti legislative, nonché l’introduzione del referendum propositivo insieme ad altre rilevanti modifiche. Cioè, una revisione articolata e complessa della Costituzione assai diversa da quella approvata con il referendum del settembre 2020. Infatti, come ha ricordato recentemente Gianni Ferrara, che scrisse il testo di quel disegno di legge, “Era una proposta molto avanzata e completa, mirava a introdurre una nuova categoria di leggi – le leggi «organiche» – a scrivere nelle Costituzione l’opzione per la legge proporzionale, a porre dei limiti alla decretazione di urgenza e a estendere il controllo parlamentare sulla politica estera del governo. Come si vede era una proposta «per» il parlamento e non «contro» il parlamento come quella che abbiamo davanti adesso…” . (8)

Stefano Rodotà


Nella relazione illustrativa di quel progetto furono richiamati i presupposti culturali e politici che avevano ispirato i suoi promotori. Il relatore, in particolare, evidenziò l’opportunità di una ristrutturazione del Parlamento sia per favorire una sua maggiore legittimazione sia, più al fondo, per la “…necessità politica ed anche storica della rifondazione e dello sviluppo della democrazia italiana” . (9)
Evidentemente, questi argomenti dimostrano che il ridimensionamento del Parlamento, così come pensato dai riformatori odierni, è un intervento inutile e poco meditato, nella migliore delle ipotesi frutto di pressapochismo politico, se non di una vera e propria confusione di idee mista ad un sentimento indistinto di antipolitica che, questa volta, ha individuato come suo bersaglio principale la Costituzione e il Parlamento repubblicano: ovvero, ad un tempo, il simbolo e il luogo della democrazia rappresentativa.
Non pochi commentatori, e addetti ai lavori, sostengono che i rimedi idonei a correggere i limiti di questa riforma consistano nell’approvazione di una nuova legge elettorale e nella modifica dei regolamenti parlamentari.
Chi scrive, pur essendo un giurista, è tra quelli che non crede nelle virtù taumaturgiche delle norme (10) , anche di rango costituzionale, ed alla loro capacità assoluta di conformare il funzionamento delle Istituzioni politiche. Spesso, infatti, accade proprio il contrario. Cioè, sono i comportamenti degli uomini -ovvero una certa applicazione o anche non applicazione di una disposizione- a influenzare e a plasmare i delicati e complessi meccanismi costituzionali che, ad un certo livello dell’ordinamento, si reggono sia sulle prassi sia sull’adesione spontanea delle forze politiche (11) , cioè dei partiti.

Gianni Ferrara


Le cause di una tale condizione di sofferenza del sistema politico-costituzionale sono molteplici, e queste brevi note non consentono di indugiare sul punto. Tuttavia, una delle ragioni principali dell’annosa crisi del regime politico italiano è, analogamente ad altri sistemi di democrazia stabilizzata, la scomparsa dei partiti di massa del novecento (12) , insieme alla loro capacità di conformare il funzionamento delle Istituzioni politiche (13) . Vale a dire che, come è stato evidenziato da numerosi studiosi, i partiti politici sono ormai delle macchine assai diverse rispetto a quelle del passato perché hanno dismesso sia la funzione fondamentale di formazione e di selezione della classe politica, sia la capacità di elaborare indirizzi programmatici utili a definire la propria visione del mondo (14) in grado, a sua volta, di caratterizzare l’azione di governo entro i tempi della legislatura. Sicché, appare evidente che le loro iniziative, anche di revisione costituzionale, si rivelino pasticciate e come tali inutili, se non dannose.
D’altra parte la crisi dei partiti è all’origine della loro incapacità di rappresentare e di attivare, per il loro tramite, un rapporto virtuoso tra i cittadini e le Istituzioni democratiche (15) . Tanto è vero che questo vuoto rappresentativo è ormai un campo sconfinato in cui operano indisturbati l’antipolitica e il populismo (16) , entrambi portatori della tesi che per migliorare e favorire il rinnovamento delle Istituzioni politiche sia necessario ridimensionarle, esattamente come accaduto con la riduzione del numero dei parlamentari. Non solo, secondo tali orientamenti sarebbe finanche preferibile ricorrere in modo massiccio alla democrazia diretta, quasi a voler accantonare definitivamente la democrazia rappresentativa con tutti i suoi corollari.
Non di meno, questa visione è del tutto inaccettabile, perché confonde assai grossolanamente i termini della questione. Difatti, non c’è alcuna relazione tra la migliore efficienza e la capacità rappresentativa del Parlamento e dei partiti ed il suo ridimensionamento, semmai è necessario esattamente l’opposto: vale a dire, rinvigorire i partiti e rilanciare i luoghi della democrazia rappresentativa nazionale (parlamento), regionale (consigli regionali) e locale (consigli comunali).
Vero è che nell’ordinamento italiano si è andata diffondendo una vera e propria opposizione culturale, per così dire, ai partiti e alla politica che ha compiuto un salto di qualità significativo: essa è ormai una lotta contro la Costituzione (17) , si direbbe senza quartiere.
Infatti, almeno da venticinque anni si discute invano di revisioni di ampia portata, cioè a carattere organico se non totali (puntualmente respinte dal corpo elettorale), che dovrebbero o avrebbero dovuto rinnovare il sistema politico (18) ; mettendo da canto le riforme che pure potrebbero essere introdotte attraverso la legislazione ordinaria in molti settori dell’ordinamento, anche al fine di favorire una più compiuta attuazione e applicazione delle disposizioni costituzionali. Si pensi, solo per fare qualche esempio, alla sanità, all’istruzione, ai diritti sociali e civili, all’immigrazione e via discorrendo.
L’attuazione della Costituzione, che si ebbe tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, grazie all’azione di numerosi attori del sistema politico, ha dunque ceduto il passo alla sua modifica, se non al suo superamento. Come se il mondo contemporaneo non presentasse altre gravi incognite da affrontare che non la revisione della Costituzione.


Viceversa, la vera questione politico e culturale da affrontare è restituire, ed allo stesso tempo rafforzare, la centralità e la capacità rappresentativa al Parlamento. Non sarà la modifica della legge elettorale o dei regolamenti parlamentari a realizzare tale risultato.
Difatti, in questi anni proprio la legge elettorale è stata al centro di numerose controversie, anche di costituzionalità, per cui non c’è da essere fiduciosi sulle sue potenzialità. D’altra parte, non si vede come un nuova legge elettorale possa contribuire a migliorare la selezione del personale politico che, come evidenziato più sopra, costituisce una precondizione decisiva per rilanciare le Istituzioni rappresentative. Invero, lo strumento delle primarie, spesso invocato e in alcuni casi anche utilizzato al fine di migliorare la selezione della classe politica, suscita numerosi dubbi. Come ad esempio, la possibilità di azionare rimedi giurisdizionali efficaci contro decisioni illegittime. Inoltre, tale strumento determina la delega permanente agli elettori-militanti di un compito e di una funzione selettiva che, al contrario, dovrebbe qualificare l’azione virtuosa dei partiti, rilanciandone le prerogative.
Ancora, la logica maggioritaria distorta affermatasi dopo il 1993 ha favorito talune modifiche dei regolamenti parlamentari che hanno accentuato il peso del Governo in Parlamento, secondo una tendenza diretta a ridimensionare la sua posizione costituzionale. L’idea, cioè, che chi vince si prende tutto, senza lasciar alcun margine ai perdenti, ha ispirato talune recenti modifiche regolamentari: reprimendo il conflitto e le dinamiche politico-parlamentari, oltre che sociali. Viceversa, alcune degenerazioni del parlamentarismo nostrano come la prassi dei maxiemendamenti, il ricorso frequente alla proposizione della questione di fiducia, nonché l’abuso del decreto legge, avrebbero dovuto consigliare esattamente il contrario: vale a dire, l’introduzione di soluzioni utili a migliorare la dialettica parlamentare e, più in generale, i lavori dell’Aula.
Come si sa quelle pratiche hanno consentito all’Esecutivo di saltare a piè pari il luogo della rappresentanza politica nazionale alterando l’equilibrio dei poteri costituzionali e, allo stesso tempo, di consolidare il mito della cd. governabilità a discapito della rappresentanza politico-parlamentare. D’altra parte, sia detto solo in via incidentale, la gestione della pandemia causata dal Covid-19, con il ricorso massiccio del Governo ai Dpcm e alla decretazione d’urgenza, nonché a livello regionale alle ordinanze del Presidente della Regione, è la riprova della condizione di grave crisi in cui versano il Parlamento repubblicano e, mutatis mutandis, i Consigli regionali.
Pertanto, la modifica dei regolamenti parlamentari invocata in questi giorni, anche da parte di coloro i quali hanno portato avanti la riforma approvata con il referendum del settembre 2020, non sembra molto promettente, pure perché le forze politiche che dovrebbero porvi mano sono le stesse che hanno ostinatamente perseguito l’obiettivo della revisione costituzionale.

27 dicembre 1947 Enrico De Nicola, Presidente della Repubblica, firma la Costituzione. Ai lati del tavolo Alcide De Gasperi, Presidente del Consiglio, e Umberto Terracini, Presidente dell’Assemblea Costituente.


Vero è che oggi bisogna rilanciare le ragioni del Parlamento e della democrazia rappresentativa, anche contro gli equivoci prodotti dalla democrazia diretta, attraverso una vera e propria battaglia politica e culturale che metta al centro del dibattito la presenza di partiti forti e autorevoli, la necessità di una politica nel senso alto del termine -cioè contraddistinta da contenuti di elevato spessore e da profondità di analisi dei problemi- e, soprattutto, i luoghi della rappresentanza democratica (19) . Solo attraverso un’opera simile potranno porsi le premesse per un rapporto virtuoso tra i cittadini e le Istituzioni, favorendo anche la migliore selezione della classe dirigente che costituisce, al tempo stesso, una delle cause della degenerazione del parlamentarismo contro cui si scagliano i detrattori della democrazia rappresentativa.
Come più sopra evidenziato, le cause di questi problemi sono molteplici. Non di meno, andando a ritroso nella storia italiana degli ultimi trent’anni almeno, ci si accorge che i mutamenti indotti nel sistema politico da una certa cultura politica maggioritaria, e dalla sua logica di personalizzazione e di verticalizzazione del potere politico, hanno prodotto guasti di enorme portata sulle Istituzioni rappresentative.
Infatti, non può essere revocato in dubbio che la sostituzione dei partiti con la forma leaderistica del potere (20) sia una delle cause più significative della crisi dello modello rappresentativo, consolidatasi anche grazie alle riforme elettorali dell’era maggioritaria, ed anche oltre, che prevedono l’indicazione del Capo della coalizione di governo che sarà poi nominato Presidente del Consiglio dei Ministri (21) , nonché all’elezione diretta dei vertici degli esecutivi regionali e locali. Vale a dire che la concezione personale del potere, ovvero la sua verticalizzazione, in cui il capo della coalizione di governo attrarre su di sé ogni istanza e conflitto collettivo, ha indotto una serie di mutamenti e di degenerazioni del sistema politico, originariamente strutturato sulla pluralità di partiti forti e autorevoli, capace di scalzare i luoghi della mediazione dello scontro politico e sociale: vale a dire le Assemblee elettive.


Va da sé che un sistema simile non può che evolvere verso una democrazia dei capi (popolo) oltre quella cd. governante o immediata, in cui appare gravemente semplificato, banalizzato, e dunque mistificato, il rapporto assai complesso tra i poteri costituiti e la comunità, conducendo il Paese verso forme primitive e del tutto inaffidabili di relazione diretta tra i cittadini ed il potere politico: ovvero, un vero e proprio regime plebiscitario in irrimediabile contrasto con il sistema democratico-rappresentativo disciplinato dalla Costituzione repubblicana.
Pertanto, vale richiamare gli insegnamenti e i classici del pensiero giuridico-filosofico moderno, almeno a cominciare dall’opera di Hans Kelsen (22) che, come si sa, ha scritto pagine fondamentali sulla democrazia e sul compromesso parlamentare, intrecciati in una relazione indissolubile: l’una e l’altro, infatti, intesi come la forma più avanzata di mediazione del conflitto politico che, senza l’azione vitale di partiti autenticamente rappresentativi, può solo condurre all’accentramento autoritario del potere, falsificando le istanze popolari e le aspettative di avanzamento del sistema politico-costituzionale.
Forse è proprio da qui che si deve ripartire dopo il referendum costituzionale del settembre 2020.


Francesco Raffaello De Martino Professore di Diritto Costituzionale Università del Molise

[1] Il problema della selezione e della qualità del personale politico è assai ampio e discusso, si veda, a solo titolo esemplificativo, l’introduzione di N. Bobbio a G. Mosca, La classe politica, Bari, 1994.

2 Il dibattito sul punto è come noto vastissimo, si deve a R. Michels, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna, Torino,  1912, una delle prime e più compiute teorizzazioni del tema.

3 Su questo problema si veda G. Azzariti, I rischi dell’ “antipolitica” tra legge elettorale e referendum, in Costituzionalismo.it, n.3, 2007, p.2.

4 Le loro tesi sono esposte nel volume di G. Giannini, La Folla, Roma, 1945, che di questo movimento fu leader e fondatore.   

5 L’origine di una tale degenerazione fu individuata agli inizi della Repubblica, e con molta lucidità, da G. Maranini, Governo parlamentare e partitocrazia, in Rassegna di diritto pubblico, n. 6, 1951, pt.1, p. 18 ss., egli infatti fu tra i primi studiosi a denunciare alcune discutibili pratiche poste in essere dai partiti,  soprattutto di governo, in quella fase storico-politica. 

6 E. Berlinguer, Intervista a Eugenio Scalfari, in La Repubblica, 28 luglio 1981, in cui denunciò che “La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono provare d’essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche…Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude”.

7 Il testo si può consultare in http://legislature.camera.it/_dati/leg09/lavori/stampati/pdf/24520001.pdf.

8 Si veda il testo integrale dell’intervista a G. Ferrara in il manifesto, 26 agosto 2020.

9 Cfr., Relazione illustrativa, in legislature.camera.it/_dati/leg09/lavori/stampati/pdf/24520001.pdf., cit., p.2.

10 Si veda, A. D’Atena, La produzione normativa tra rappresentanza e consenso nella riflessione di Esposito, Crisafulli e Paladin, in L. Carlassare (a cura di), La sovranità popolare nel pensiero di Esposito, Crisafulli, Paladin, Padova, 2004.

11  Vale a dire le cd. convenzioni costituzionali, ovvero regole non assistite da sanzioni giuridiche e tantomeno azionabili davanti al giudice costituzionale, frutto dell’accordo tra le forze politiche al fine di favorire l’applicazione delle disposizioni costituzionali soprattutto in materia di forma di governo. Queste ultime a loro volta si intrecciano e sono altresì influenzate da disposizioni di rango ordinario come, per l’appunto, la legge elettorale.

12 P. Ignazi, La lunga storia e l’incerto futuro del partito politico, in il Mulino, n. 2, 2008, p. 205 ss.; più recentemente Id., Partito e democrazia. L’incerto percorso della legittimazione dei partiti, Bologna, 2019; O. Massari, Dal partito di massa alla partitocrazia senza partiti, in Nomos, n. 3, 2018.

13  Su questa specifica funzione dei partiti si veda lo studio ancora molto attuale di L. Elia, Governo (forme di), in Enciclopedia del diritto, volume XIX, Milano, 1970.

14 Si veda G. Ferrara, Sulla rappresentanza politica. Note di fine secolo, in Rivista di diritto costituzionale, 1988, p.53, in cui si rimarca che i partiti hanno perso “la loro vocazione, quella di elaborare e proporre fini e senso alla politica”.

15 Su questa specifica funzione del partito politico si veda K. Hesse, La posizione costituzionale dei partiti politici nello Stato moderno, a cura di G. Grasso, Seregno, 2012.

16 Su questi problemi si veda N. Urbinati, Me the People. How Populism Transforms Democracy, Harward University Press, 2019.

17 Il riferimento è soprattutto alla revisione organica della Costituzione proposta dal Governo Berlusconi nel novembre 2005 e bocciata con il referendum costituzionale del 25-26 giugno 2006.

18 Pure la riforma costituzionale proposta dal Governo Renzi e approvata nell’aprile 2016 può essere annoverata tra i tentativi maldestri di riforma della Costituzione; anch’essa fu respinta dal corpo elettorale il 4 dicembre 2016.

19 In tema si veda G. Azzariti, Forme e soggetti della democrazia pluralista. Considerazioni su continuità e trasformazioni dello stato costituzionale, Torino, 2000, p.465 ss.

20 Per le implicazioni costituzionali di questo processo si veda C. De Fiores, Dai partiti democratici di massa ai partiti postdemocratici del leader. Profili costituzionali di una metamorfosi, in Costituzionalismo.it, n. 1, 2018.

21 Non sfugge che questa soluzione normativa produce l’effetto di una sorta di elezione diretta mistificata nella forma, in quanto il capo del Governo è “solo” indicato dai cittadini ma non direttamente e formalmente eletto. Questo escamotage ha consentito di aggirare l’articolo 92, II comma, della Costituzione che assegna al Presidente della Repubblica il potere di nomina del Primo Ministro.

22 H. Kelsen, Il problema del Parlamento, in Il primato del Parlamento, Milano, 1982, p. 171. Sull’opera di Kelsen la bibliografia è sconfinata, si veda L. Ferrajoli, La logica del diritto. Dieci aporie nell’opera di Hans Kelsen, Roma-Bari, 2016; M. Barberis, Introduzione, in H. Kelsen, La democrazia, Bologna, 1998, p. 7 ss.

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