di Gianni Silvestrini

Una vignetta dell’Economist sintetizza perfettamente la delicata fase attuale. In un ring si affrontano la Terra e il Covid. Ma si tratta solo del primo round, perché fuori dalle corde si affaccia un gigante decisamente più pericoloso, quello dell’emergenza climatica.

Il fatto che il 2020 si avvii ad essere uno degli anni più caldi degli ultimi due secoli rappresenta un ulteriore segnale della necessità di impegnarsi a fondo per evitare crescenti rischi per le future generazioni.

Quest’anno si sarebbe dovuta tenere la COP 26, una Conferenza sul clima importante perché doveva essere l’occasione per innalzare gli obbiettivi di riduzione delle emissioni. L’Accordo di Parigi del 2015 prevede infatti la possibilità, ogni cinque anni, di rendere più ambiziosi i target nazionali.

L’Europa, ad esempio, sta definendo il suo nuovo obbiettivo al 2030 con un taglio  del 50-55% delle emissioni sui valori del 1990. Un deciso passo in avanti rispetto alla riduzione del 40% con cui si era presentata a Parigi. Non solo, ma sta definendo un percorso per avere un Continente “carbon neutral” al 2050.

E diversi paesi stanno intanto operando con grande decisione. Citiamo ad esempio la Danimarca il cui Governo, con il consenso di larghissima parte del Parlamento, non solo ha approvato un target ambizioso, un taglio del 70% delle emissioni al 2030 (oggi sono a -35%), ma intende verificare annualmente l’andamento della riduzione delle emissioni con la possibilità di far cadere il Governo in caso di sforamento delle emissioni.

Per finire, va detto che lo slittamento al 2021 della COP 26 potrebbe anche comportare il rientro in gioco degli Usa dopo le elezioni di questo novembre.

E calano, momentaneamente, le emissioni

La pandemia ha innescato profonde trasformazioni e ci ha fatto capire i limiti di un modello economico che si alimenta con la continua ricerca di nuove risorse e una drammatica erosione della biodiversità.  Ha evidenziato poi alcune fragilità della globalizzazione e ci ha indotto a riflettere anche sui modelli di vita, invitandoci ad una maggiore sobrietà. E può inoltre rappresentare lo stimolo per una messa in discussione di un sistema economico basato sulla crescita continua ed immaginare scenari basati su uno sviluppo qualitativo.

Ma, intanto, la crisi indotta dal Covid sta avviando modifiche profonde in diversi comparti dell’economia e del sociale, dall’energia ai trasporti, dalle nuove forme di lavoro all’insegnamento a distanza.

Un primo dato globale che emerge è il calo dei consumi di gas, petrolio e carbone e conseguentemente delle emissioni di CO2 che, secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia, (la Iea,) potrebbero risultare quest’anno inferiori del 6% rispetto ai livelli del 2019.

Questo taglio, legato agli impatti del virus, fa riflettere sullo sforzo che andrà fatto sul lungo periodo per affrontare l’emergenza climatica. Infatti, la riduzione del 2020 è della stessa entità della riduzione che dovremo ottenere ogni anno per stare sotto l’incremento di 1,5 °C auspicato nel 2015 dall’Accordo di Parigi.

Un promemoria dell’incredibile accelerazione delle politiche da attivare per evitare esiti catastrofici per l’umanità.

Le risposte alla pandemia e la sfida climatica

Secondo quanto calcolato dalla Iea, i governi intendono destinare 9.000 miliardi di dollari a livello globale per salvare le economie dopo la crisi Covid influenzandone l’andamento per almeno un triennio. Parliamo cioè del periodo in cui le emissioni dovrebbero iniziare a calare per garantire il raggiungimento degli obiettivi climatici. Se invece ci fosse un rimbalzo delle emissioni, come successo dopo la crisi del 2008, si allontanerebbe la possibilità di decarbonizzare le economie nei prossimi 30-40 anni.

Da qui l’importanza di qualificare i programmi di rilancio dell’economia in modo green, sapendo che, comunque, non tutte le risorse saranno destinate a settori ambientalmente sostenibili. Nei paesi del G20, ad esempio, 151 miliardi di dollari aiuteranno il mondo dei fossili.[1]

Il raggiungimento degli ambiziosi obbiettivi climatici implica soluzioni tecnologiche avanzate, interventi istituzionali, modifiche del modello economico ed infine un cambiamento degli stili di vita.

L’aspetto specifico che cercheremo di analizzare riguarda i possibili impatti della pandemia sull’evoluzione di comparti decisivi per il taglio delle emissioni.

Cambieranno le modalità degli spostamenti?

Il settore dei trasporti è responsabile del 24% delle emissioni di CO2 legate alla combustione dei fossili, ma le prospettive di decarbonizzazione sul medio e lungo periodo sono incoraggianti grazie alla disponibilità di nuove opportunità tecnologiche, ad iniziare dalla mobilità elettrica. Con un elemento aggiuntivo: sarà possibile riorganizzare l’organizzazione urbana in modo da ridurre drasticamente il numero di auto e favorire la ciclabilità e la pedonalità. E sperabilmente si diffonderà il concetto di “città dei 15 minuti” che prevede una programmazione di negozi e servizi che consenta di raggiungerli a piedi o in bici nell’arco massimo di un quarto d’ora.

E poi i servizi in sharing – auto, moto, biciclette – diventeranno la norma in molte città. Nel più lungo termine avremo i taxi a guida autonoma che consentiranno di ridurre il numero di auto in circolazione e gli spazi dedicati ai parcheggi.

Insomma, la mobilità urbana è destinata a cambiare notevolmente con l’irruzione di auto, bus, bici, ciclomotori e altri mezzi a trazione elettrica.

Per le automobili la transizione è appena avviata, ma il mezzo milione di autobus elettrici e le decine di milioni di motorini e bici elettriche che già circolano in Cina fanno capire che la rivoluzione è dietro l’angolo.

E’ interessante da questo punto di vista evidenziare il recente cambio di strategie da parte di grandi gruppi automobilistici.

La Volkswagen ha deciso di puntare con decisione sull’elettrico, settore sul quale investirà 36 miliardi con l’obbiettivo di vendere 26 milioni di auto entro il 2029.

E la pandemia ha accelerato questa transizione.

Non solo sul versante delle vendite, crollate durante la pandemia salvo che nel settore delle elettriche che grazie agli incentivi dovrebbero mantenere la quota di 2,1 milioni raggiunta lo scorso anno (nei quattro principali mercati europei le auto elettriche hanno visto un balzo del 90% nel primo quadrimestre 2020). Ed è significativa la scelta della Germania, che ha deciso di indirizzare gli incentivi solo all’acquisto di auto elettriche.

Ma il Covid ha determinato anche trasformazioni nei comportamenti, destinate ad incidere anche sulla mobilità.

Secondo un rapporto di KPMG, l’effetto sugli spostamenti futuri negli Usa sarà pesante: 14 milioni di auto lasceranno le strade e le vendite di veicoli caleranno di 1 milione l’anno (rispetto ai 17 milioni venduti mediamente nell’ultimo quinquennio).  KPMG stima una riduzione permanente del 10% dei chilometri percorsi annualmente. [2]

Una delle ragioni riguarda il successo del lavoro a distanza. A San Francisco due terzi dei lavoratori dei comparti tech sarebbero disponibili ad abbandonare la Bay Area e lavorare da casa. Twitter ha già concesso questa soluzione per i suoi dipendenti e molte multinazionali stanno ipotizzando soluzioni che consentano ai propri dipendenti di lavorare ovunque.

Naturalmente le implicazioni e le problematiche di una espansione di queste nuove forme di lavoro non sono banali e vengono affrontate da schiere di avvocati e fiscalisti. Ma la direzione sembra aperta e la pandemia ha accelerato notevolmente questa tendenza.

Infine, il Covid sta incidendo anche sulle scelte dei governi e delle industrie. Una parte dei fondi europei per la ripresa sarà infatti utilizzata per la realizzazione di fabbriche di batterie e di veicoli elettrici favorendo così la delicata transizione di questo comparto industriale.

Le rinnovabili accelerano

Il forte calo dei consumi energetici dovuto all’emergenza sanitaria, con trasporti semiparalizzati e industrie a marcia ridotta, ha provocato un crollo dei prezzi del petrolio e del metano.

Una situazione che, in condizioni normali, avrebbe danneggiato fortemente le fonti rinnovabili e la mobilità elettrica. Ma le dinamiche stavolta sono state molto diverse.

Certo, la crisi si è ripercossa anche sulle installazioni di alcune tecnologie rinnovabili, ma gli scenari che riguardano l’energia verde appaiono in realtà rinvigoriti.

Nel secondo trimestre del 2020 le rinnovabili in Europa hanno garantito il 45% dei kWh generati.

Gli investimenti globali green nel primo semestre di quest’anno sono aumentati del 5% rispetto allo stesso periodo del 2019[3] e, per la prima volta nella storia, nel 2021 essi dovrebbero sorpassare quelli destinati all’estrazione di petrolio e metano.

Le energie verdi in questo decennio potrebbero attrarre, secondo Goldman Sachs, investimenti per 16.000 miliardi $ e creare 20 milioni di nuovi posti di lavoro.[4]

Una delle spiegazioni di questa accelerazione riguarda la sempre maggiore competitività, come dimostra una recente gara per un progetto fotovoltaico da 2.000 MW ad Abu Dhabi aggiudicata per 13,5 $/MWh, la più bassa mai registrata finora al mondo per la produzione di energia elettrica da solare.

Ma un’altra ragione riguarda le strategie di investimenti di grandi gruppi, incluse le stesse compagnie Oil&Gas, sempre più interessate alle rinnovabili.

E, naturalmente, sono decisive le scelte di molti governi che dopo il Covid accelerano la transizione green.

Società dei fossili in difficoltà

Il mondo dei fossili, invece, inizia a scricchiolare.

I primi tre mesi dall’inizio della pandemia hanno visto una sequenza di eventi del tutto imprevedibili. A marzo la combinazione di un calo della domanda di petrolio e dell’estrazione spinta di greggio dovuta alla competizione tra Arabia Saudita e gli altri produttori, ha portato negli Usa a quotazioni negative del greggio. Inoltre, in rapida sequenza BP, Shell, Total ed Eni hanno annunciato strategie per divenire carbon neutral a metà secolo. Era una scelta sollecitata dalla pressione combinata di ambientalisti, mondo della finanza e governi, ma la crisi Covid ha accelerato l’impegno.

“Penso che questa crisi cambierà le strategie della società, come è successo dopo l’Accordo di Parigi», ha dichiarato l’Amministratore delegato della Shell.[5]

E il cambio di marcia sarà decisamente più incisivo rispetto a quello determinato dall’Accordo sul clima. Il nuovo scenario mette infatti a rischio le strategie dei produttori con bassi margini di guadagno, viste le incertezze sul fronte della domanda a causa della crescita delle rinnovabili, degli interventi di efficienza, delle modifiche della mobilità e per finire della prevista esplosione delle vendite dei veicoli elettrici.

Uno dei settori più colpiti è quello dell’estrazione di gas e di petrolio da shale negli Usa. Entro la fine del 2021, 250 compagnie operanti in questo settore rischiano di dichiarare bancarotta. Chesapeake Energy, una delle pioniere dello shale, prima di fallire ha simpaticamente elargito 25 milioni $ ai propri dirigenti.[6]

Ma il nuovo contesto cambia le strategie in maniera imprevedibile fino a poco tempo fa.

Il Regno Unito nel 2017 aveva fissato il 2040 come data ultima per la vendita delle auto a benzina e diesel. A febbraio di quest’anno aveva anticipato la data al 2035. Ma, e qui c’è l’elemento sorpresa, la Shell ha rilanciato sostenendo che il Governo inglese dovrebbe vietare la vendita di auto convenzionali già dal 2030!

Per inciso, l’Italia non ha deciso una data né al 2030, né al 2035, né al 2040…. “Potenza” di Fca ed Eni e debolezza della politica.

Ancora più significativo è il cambio di marcia annunciato, all’inizio di agosto dalla BP. A vent’anni dalla decisione di trasformare il logo in Beyond Petroleum, in realtà con effetti molto limitati, la società ha definito obbiettivi “dirompenti” al 2030: ridurre del 40% la produzione di petrolio e gas e aumentare di dieci volte gli investimenti delle rinnovabili per arrivare a 50 GW verdi alla fine del decennio. Nell’annunciare il cambio di strategia, l’Amministratore Bernard Looney ha dichiarato: “Nel mondo si vive una situazione diversa a causa del Covid e anche noi stiamo cambiando”.

E diversi segnali, dalle modifiche comportamentali dei cittadini all’arrivo della mobilità elettrica, indicano come il 2019 potrebbe essere ricordato come l’anno del picco della domanda di petrolio.

I grandi gruppi avvertono anche una opinione pubblica sempre più ostile nei loro confronti.  Significativa in questo senso la decisione del gruppo editoriale che gestisce il prestigioso The Guardian di non accettare più pubblicità da parte di aziende operanti nel mondo dei fossili (se anche in Italia qualche gruppo prendesse una decisione simile, avremmo un’informazione meno succube…)

Ma anche sul fronte del metano, la costruzione di nuovi gasdotti e di impianti di liquefazione/rigassificazione presenta rischi crescenti.

Significative in questo senso le decisioni che vengono prese in diversi paesi.

Negli Usa, ad esempio, diverse città hanno imposto l’opzione “all electric” per le nuove case, evitando così l’allacciamento alle reti di metano. E le due principali utilities californiane hanno sollecitato una normativa che estenda questi obblighi a tutto lo Stato in modo da evitare la realizzazione di reti di distribuzione del gas inutilizzabili già prima del 2045, considerando l’obbiettivo californiano di raggiungere la “neutralità carbonica” entro quella data.

E proprio le crescenti incertezze sul futuro della domanda di metano spiegano l’improvviso interesse per nuovi scenari.

La sorpresa idrogeno

Di false partenze l’idrogeno ne ha viste parecchie. Nel suo libro Hydrogen Economy del 2002 Rifkin ipotizzava la creazione di una rete energetica decentrata abbinata ad un gran numero di celle a combustibile.  Non è andata così, ma recentemente l’interessamento per questo vettore energetico è fortemente aumentato e le risorse post-Covid potrebbero rappresentare un efficace trampolino per il suo decollo.

Non a caso, l’8 luglio la Commissione europea ha pubblicato il documento: “A hydrogen strategy for a climate-neutral Europe” che indica obbiettivi ambiziosi con una chiara priorità per la sua produzione mediante impianti di elettrolisi dell’acqua alimentati da fonti rinnovabili. La Ue si propone di realizzare entro il 2030 impianti per ben 40.000 MW e una potenza analoga nel Nord Africa e in Ucraina.  Per capire il salto di qualità prospettato, si consideri che al momento in tutto il mondo ci sono solo elettrolizzatori per soli 250 MW.

Questo sforzo dovrebbe consentire di accelerare la competitività dell’idrogeno “verde” da rinnovabili, che entro 10-15 anni potrebbe rivaleggiare con la produzione di H2 dai fossili, il cosiddetto idrogeno blu ottenuto dal metano combinato col sequestro della CO2 prodotta.

Ma quali potrebbero essere le applicazioni dell’idrogeno? Quello di facilitare il processo di decarbonizzazione in comparti industriali “pesanti”, come le acciaierie e la petrolchimica, e di favorire l’accumulo stagionale per le rinnovabili. Improbabile invece il successo delle auto con celle a combustibile e il suo impiego, miscelato al metano, negli impianti di riscaldamento.

In prima fila a spingere per il suo impiego ci sono i gestori dei metanodotti, che devono trovare una ragione di sopravvivenza in uno scenario di neutralità climatica al 2050. Inizialmente la loro strategia punta a miscelare l’idrogeno al metano e successivamente di trasportare H2 anche puro. Una soluzione quest’ultima però non priva di controindicazioni per la minore densità energetica dell’idrogeno. Visto infatti che il suo potere calorifico per unità di volume è pari a un terzo rispetto a quello del metano, la capacità energetica di trasporto dei metanodotti si ridurrebbe.

L’ipotesi della Snam, gestore di metanodotti, di produrre idrogeno verde in paesi della costa Sud del Mediterraneo, attribuendo all’Italia un ruolo di “hub” europeo del gas verde, presenta dunque diverse criticità, sia sul fronte dei possibili impieghi che per quanto riguarda il trasporto.

Mentre l’utilizzo dell’idrogeno in situazioni puntuali come in alcuni comparti industriali sarà decisivo in una logica di decarbonizzazione, come pure sarà centrale nel creare accumuli stagionali negli scenari energetici con il 100% di elettricità rinnovabile.

Secondo il vicepresidente della Commissione Frans Timmermans: “L’idrogeno può diventare un motore di sviluppo e contribuire al rilancio dopo i danni causati dal Covid-19”.

Decisiva sarà la scelta della modalità di produzione. In Italia l’Eni punta alla produzione di idrogeno attraverso il “reforming” del metano con cattura della CO2 e l’utilizzo per lo stoccaggio dei giacimenti a gas offshore esauriti del Medio Adriatico.

Germania e Francia, ma anche in Italia l’Enel, al contrario puntano invece con decisione sull’idrogeno verde.

L’impiego dei fondi europei sull’idrogeno green consentirebbe di preparare il paese al processo di decarbonizzazione spinta, di potenziare la nostra produzione di elettrolizzatori e di avviare un processo di utilizzo dell’idrogeno nell’industria pesante, dalla petrolchimica alla produzione di acciaio.

Uno scenario che potrebbe vedere protagonista il Sud del paese, grazie alle potenzialità delle rinnovabili.  La Snam in Sicilia vorrebbe produrre idrogeno verde utilizzando l’eolico e il solare con l’ipotesi di alimentare una raffineria.

L’occasione verde del Sud

Un quarto delle risorse europee post Covid, 750 miliardi, dovrà essere speso in interventi green e anche il 25% del nuovo bilancio dell’Unione europea 2021-2027 mobiliterà investimenti sostenibili. In totale parliamo di 375 miliardi. 

Il riferimento al Green new deal adesso è un prerequisito, non più solo un elemento di punteggio, per l’approvazione dei progetti.

D’altra parte, le indicazioni contenute nel “Piano per il Sud” del ministro Provenzano prevedono che il 34% degli investimenti pubblici vada al Mezzogiorno, invertendo una tendenza che aveva visto un dimezzamento della spesa per gli investimenti ordinari della PA nel Sud, scesi da 21 miliardi nel 2008 a soli 10,3 miliardi nel 2018.

La combinazione della decisa spinta europea verso il Green Deal con la nuova attenzione del Governo per il Sud potrebbe favorire nei prossimi anni un rilancio delle Regioni meridionali caratterizzato dalla sostenibilità sociale ed ambientale.

Potrebbe, perché molto dipenderà dalla capacità di individuare obbiettivi, garantire progettualità, indirizzare risorse. Si tratta comunque indubbiamente di una opportunità unica per il Mezzogiorno e l’auspicio è che venga colta dai territori come dalle istituzioni centrali.

Ci saranno investimenti da veicolare in nuovi comparti industriali – dalla mobilità elettrica alla riqualificazione urbana, dall’agroecologia alle bioraffinerie – ma andranno colte anche le opportunità offerte da nuovi indirizzi nel turismo e nel lavoro. Non vanno infine dimenticate le misure che portano occupazione senza redditività immediata, come quelle contro il dissesto idrogeologico che rischia di peggiorare con la crisi climatica.

La transizione energetica nei prossimi anni sarà impetuosa, in particolare nel Sud.  Dai parchi eolici off-shore con centri di produzione dei componenti nei cantieri navali, alle centrali solari agro-fotovoltaiche che riporteranno a coltivare campi abbandonati. Dalla produzione di biometano che consentirà grazie al digestato di riportare fertilità in suoli in via di desertificazione, alla riqualificazione energetica e sismica di interi quartieri.

E gli sgravi contributivi del 30% sul cuneo fiscale per le imprese del Sud, accompagnati al minor prezzo dell’elettricità garantito dal solare e al rientro di aziende dall’estero (il reshoring post Covid) potrebbero premiare le regioni del Mezzogiorno.

Tra le novità consideriamo anche il fatto che una (piccola?) parte delle centinaia di migliaia di giovani che hanno lasciato il Sud potrebbe inoltre tornare in smart working per imprese collocate a centinaia o migliaia di chilometri di distanza. Certo, per questo occorre una accelerazione nella realizzazione di infrastrutture di trasporto e di quelle digitali.  Alcune piccole esperienze sono già presenti e potrebbero estendersi. Ne citiamo una in Sicilia, dove giovani preparati in comunicazione ed informatica hanno creato Edgemony, un hub tecnologico volto a reperire esperti che forniscano i loro servizi per aziende italiane e straniere. E sempre in Sicilia è stato lanciato e teorizzato il South working come possibilità  di valorizzare talenti che hanno maturato esperienze al Nord o all’estero e intendono lavorare al Sud in connessione con le realtà di provenienza.

Significative, in questo senso, le preoccupazioni per l’impatto negativo del lavoro a distanza per diverse attività economiche locali espresse dal sindaco di Milano, Beppe Sala: “Basta smart working, è il momento di tornare a lavorare”.

La riflessione post Covid potrebbe inoltre rilanciare l’interesse per i piccoli centri e per un turismo diffuso.

Ma torniamo alle grandi scelte che dovranno essere fatte.

Il rischio che i Ministeri, le Regioni, i Comuni, oltre ad una serie di soggetti privati, facciano la lista dei “desiderata” e su questa base si imposti la programmazione post Covid, è quanto mai attuale. Occorre quindi che il governo indichi linee progettuali forti, coerenti con l’attenzione alle tematiche ambientali, digitali e della resilienza, richieste dalla Commissione europea. Certamente devono avere spazio la riforma della Pubblica amministrazione e della giustizia civile, la lotta alle disuguaglianze, il miglioramento del sistema scolastico e sanitario. Ma è importante che anche in Italia si individuino scelte strategiche forti capaci di accompagnare il paese e il Sud nella transizione ecologica dell’economia.  Come è importante il coinvolgimento di realtà locali facendole tornare protagoniste.

Prendiamo l’esempio delle Comunità energetiche, con la possibilità di un territorio – enti locali cittadini, aziende – di produrre e scambiarsi l’energia verde prodotta e non consumata. Questa opzione, prevista dalla Direttiva europea sulle fonti rinnovabili che dovrà essere recepita entro giugno 2021, potrebbe divenire un momento importante di partecipazione, garantendo occupazione e ricadute economiche.

Le prime parziali applicazioni sui condomini sono già attivabili grazie ad un provvedimento del 2021 e si sposano con due altri strumenti, l’incentivo 110% per la riqualificazione energetica e sismica degli edifici privati e il Fondo Kyoto per gli Enti locali.

Abbiamo citato questa specifica linea di intervento perché potrebbe rappresentare una efficace applicazione di un metodo che vede indirizzi chiari dal Centro e un ampio coinvolgimento locale.

Cambieranno molte cose dopo il Covid in giro per il mondo, ed auspicabilmente nel nostro Sud.

«Non vogliamo tornare a questa follia», ha dichiarato un famoso opinionista inglese, George Monbiot, riportando i dati di un sondaggio secondo cui otto persone su 10 vogliono che il governo britannico dia la priorità alla salute e al benessere rispetto alla crescita economica.[7] Ma per evitare il ritorno al passato è indispensabile un ruolo critico, propositivo, attento di tutti coloro che, toccati da questa scioccante esperienza, capiscono che questa occasione di cambiamento non va sprecata.


[1] https://www.sei.org/about-sei/press-room/g20-governments-have-committed-151-billion-to-fossil-fuels-in-covid-19-recovery-packages/

[2] https://www.bloomberg.com/news/articles/2020-07-15/new-work-from-home-culture-will-cut-billions-of-miles-of-driving?sref=K0AvUAqu

[3] https://www.energylivenews.com/2020/07/14/offshore-wind-investments-grow-colossally-in-first-half-of-2020/

[4] https://cleantechnica.com/2020/06/17/goldman-sachs-sees-16-trillion-investment-in-renewables-by-2030/

[5] A. Edwards et al., “The oil business may never be the same again, Shell CEO acknowledges”, Fortune, 30 aprile 2020

[6] https://www.nytimes.com/2020/07/12/climate/oil-fracking-bankruptcy-methane-executive-pay.html

[7] https://www.theguardian.com/commentisfree/2020/jul/21/greener-happier-world-politicians-boris-johnson-consumerism-planet

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