Pietre e ceneri

Le opere di Enzo Pagano, che vengono pubblicate in questo numero di Infiniti Mondi, appartengono a due nuclei, in apparenza, del tutto autonomi, ma in realtà profondamente connessi.

Le ceneri sono dei lavori realizzati, a partire dalla metà degli anni ’90, con tecnica mista su carta, nei quali l’elemento caratterizzante è, appunto, la cenere che depositandosi sulla superficie del foglio si aggrega o si dirada, facendo emergere forme che l’artista evidenzia e amplifica con segni di matita o carboncino. La gamma d’immagine spazia tra l’astrazione, sempre sostenuta da una forte presa del dato materico e tonale, a proposizioni di impianto figurativo, che riecheggiano, non di rado, rimandi all’arte del passato.

Le pietre/sculture, come le ha definite lo stesso artista, sono rocce frammentarie, raccolte sul greto del lago Sirino e interpretate come figure del mito classico o del mondo arcaico, o come omaggi all’arte contemporanea. A volte sono presenti minimi interventi di assemblaggio, ma sostanzialmente questi lavori rientrano, almeno dal punto di vista tecnico, nella categoria degli objets-trouvés, sarà necessario, a questo proposito, fare alcune precisazioni. L’operazione di prelievo di Duchamp puntava a uno spostamento degli oggetti dal mondo d’uso alla sfera dell’arte, con un’intenzione principalmente semantica e di irriverente demistificazione, un contesto, quindi, nel quale la qualità estetica risultava del tutto irrilevante. Pagano realizza uno slittamento tra il naturale e l’arte che sfuma i confini deu due ambiti, ricondotti a un flusso di circolarità. È la sensibilità dell’artista che presiede a questa scelta ed evidenzia le qualità formali dell’oggetto, a questo punto, tanto naturale quanto artistico.

Detriti, dunque il risultato inesauribile e mai definito del trascorrere di un tempo lunghissimo, che attraverso l’azione degli elementi naturali dà forma alle cose e incessantemente le modifica; anche la cenere è un precipitato del tempo: in una dimensione certo notevolmente più rapida la combustione stravolge l’aspetto della materia. Come la frana porta a valle i frammenti dilaniati delle rocce la combustione è il processo che, per eccellenza, distrugge e rigenera. Questi sedimenti del tempo sono la manifestazione di fenomeni di straordinaria potenza, che portano dentro l’umano una dimensione sovrumana. L’arte li rende visibili, nello spazio delle forme, per vie a volte misteriose, nel suo essere al limite tra il mondo della parola e l’indicibile.

Ci si immagina l’artista che si aggira con una capacità rabdomantica di intuizione per scegliere una tra centinaia di pietre o intento a depositare l’evanescente cenere che diventa forma di un microcosmo pulviscolare, ma anche traccia, orma, reperto di vanitas, come accade nei teschi o nei dorsi di vertebre.

Le statuine di arcaiche divinità femminili esibiscono volumi articolati in masse dilatate, che ne amplificano la presenza nello spazio, a dispetto delle ridotte dimensioni.

Le figure del mito: Ercole, il centauro, la Nike, Afrodite sono simultaneamente manifeste e oscure. Il rapporto con i nobili modelli della statuaria antica è tanto evidente quanto sorprendente eppure la natura frammentaria di queste pietre, la loro superficie scabra, come se ci fosse stato il contatto con una sostanza abrasiva, le infiorescenze irregolari, da organismo esploso, che fanno pensare alle immagini della Terra devastata, introducono una componente fortemente drammatica. È qui in atto una sorta di trasformazione dolorosa e meravigliosa, perché si rinnova il mito tragico di Dioniso dilaniato e divorato dai Titani. Un torso tagliato di netto o un arto che si sgretola in un residuo di sé stesso sono gli stessi della statua mutila che troviamo nei musei. Questo rispecchiamento dell’opera nella materia che la costituisce è l’immagine della frizione del tempo e nel tempo, la stessa che segna le vite di ciascuno.

Massimo Tartaglione

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