Siamo davvero contenti di ospitare oggi, in questo spazio di interlocuzione in rete, fuoricollana.it, web magazine di cultura politica e costituzionale ideato e diretto da Antonio Cantaro e Federico Losurdo.
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Trump preso sul serio, ma non troppo. Questo potrebbe essere il sottotitolo del numero ventinove di fuoricollana dedicato ad una ricostruzione dei primi cento giorni della seconda Presidenza Trump.
Per un verso, Trump, appellandosi alla sua forte legittimazione popolare (ampiamente sottovalutata dai media mainstream), si erge a protagonista di una “rivoluzione passiva” contro i poteri costituiti insediati nella Capitale (lo smantellamento di Usaid e potenzialmente di altre amministrazioni chiave come l’FBI e la CIA). Una “rivoluzione” che passa anche per la “guerra culturale” contro le teorie woke e LGTBQ+ e contro le istituzioni universitarie, a cominciare da quella più prestigiosa e elitaria di Harvard. Il tutto si completa con la “caccia” al migrante sudamericano considerato alla stregua di un invasore da deportare, mentre, paradossalmente, si accolgono come “rifugiati” i bianchi afrikaner che scapperebbero dalle persecuzioni del governo sudafricano (su cui Stefano Bellucci “Lo strano caso dei rifugiati sudafricani”).
D’altro canto, the Donald è sembrato in più occasioni sopravvalutare il potere della Presidenza, il governare per decreto, “executive orders”, (sui cui il contributo di Edmondo Mostacci “Donald Trump all’assalto della separazione dei poteri”). Il potere negli USA si articola in una molteplicità di organi e gangli vitali che contribuiscono a stabilizzare l’indirizzo politico del paese, al pari del Presidente. Non si tratta solo degli altri organi costituzionali (magistratura e Congresso), ma anche del c.d. deep state, quel “potere profondo” dai tanti volti, non tutti trasparenti e alla luce del sole, che dispone di numerosi strumenti per contrastare il trumpismo.
Si prenda a modello la vicenda convulsa dei dazi (Anna di Lellio “Trump, visto da New York“) Dopo l’annuncio in pompa magna del “Liberation day” il 2 aprile, a distanza di pochi giorni Trump è stato indotto a tornare sui suoi passi dalla pressione irresistibile dei mercati finanziari, un potere occulto che condiziona le decisioni di qualsivoglia governo nazionale. Lo hanno appreso i paesi “periferici” dell’eurozona durante la crisi dei debiti sovrani e anche la spavalda Liz Truss, primo ministro inglese per meno di quarantacinque giorni, “sfiduciata” dalle borse. Trump ha obtorto collo sospeso tutti i dazi reciproci, salvo quelli rivolti alla Cina aumentati fino al 145%. Ma il paese del Dragone, come illustra nel suo contributo Vincenzo Comito (“Trump, visto da Pechino”), ha reagito con il suo tradizionale pragmatismo, ribattendo colpo su colpo e costringendo Trump a rimandare a tempo indeterminato anche questi dazi. Infine, la Corte federale per il commercio internazionale ha statuito che il Presidente non aveva la competenza ad imporre i dazi (potere spettante al Congresso), concludendo per la nullità insanabile dei decreti presidenziali. Dopo la sospensione della Corte d’appello federale, si annuncia una lunga battaglia legale fino alla Corte suprema, mentre i trumpiani più ferventi gridano al “colpo di Stato giudiziario”. Non è la prima volta, non sarà l’ultima.
Visto dal resto del mondo, Trump sembra essere il precipitato, anche con alcuni tratti patetici, della decadenza dell’impero a stelle e strisce. Impero che, pur conservando ancora il dominio militare sugli oceani, non riesce più ad esercitare l’egemonia sul piano politico, economico e culturale all’interno di un dis-ordine internazionale sempre più frastagliato che non si lascia ingabbiare nella logica affaristica del maestro del “The art of the deal” (Salvatore Minolfi “The Donald, o Guappo ‘e Cartone”).
Sul fronte russo-ucraino, Trump scommetteva sulla possibilità di replicare “al contrario” la strategia di Nixon degli anni Settanta, fomentando la rottura tra Russia e Cina. Si tratta di una strategia alquanto ingenua, dato che, come spiega esemplarmente Alberto Bradanini (“Il nemico americano. Le tragedie di Ucraina e Palestina“) Trump sembra non aver compreso che all’ombra della guerra aperta tra Russia e Ucraina si combatte un conflitto nascosto con cui l’Impero statunitense punta a indebolire la Cina, sua principale avversaria, sconfiggendone il suo alleato più prezioso, la Russia appunto. Quest’ultima a sua volta, come spiega Vincent Ligorio (“Trump, visto da Mosca“) non ha mai preso davvero troppo sul serio Trump. Lo ha lusingato, illuso e manipolato. Lo considera un personaggio troppo imprevedibile per farci affidamento, ma che può essere “utilizzato” per assestare il colpo di grazia all’ordine americano-centrico e rafforzare i suoi rapporti con i paesi del “Sud Globale”.
La politica trumpiana evidenzia contraddizioni altrettanto importanti sull’altro fronte della “guerra mondiale a pezzi”, il grande conflitto mediorientale. Le tensioni con Israele sono più profonde di quanto si pensi. In primo luogo, Trump, nel suo pragmatismo, constata che Israele dopo un anno e mezzo di bombardamenti indiscriminati, ha distrutto Gaza ma non Hamas, ha distrutto il Sud del Libano ma non Hezbollah. In secondo luogo, Trump intravede in Israele essenzialmente una spesa senza ritorno economico, mentre le Petromonarchie del Golfo gli promettono lucrosi investimenti nelle industrie americane e anche qualche regalo personale (l’aereo donatogli graziosamente dal Qatar). Ricalca un po’ la stessa logica che ha spinto Trump a chiedere ai paesi europei di aumentare la percentuale del PIL dedicata alla difesa, se vogliono continuare ad usufruire dell’ombrello NATO.
Di qui una potenziale contraddizione strategica. Da un lato, Trump continua a dare sostegno finanziario e militare alla “pulizia etnica” di Gaza (ma anche della Cisgiordania): la proposta di fare di Gaza una “riviera” turistica con l’espulsione coatta dei palestinesi in Egitto e Giordania. Dall’altro lato, Trump, anche contro il volere del governo di Netanyahu, è pervenuto ad un accordo con gli Houthi in Yemen, accordo in base a cui gli USA si astengono dall’attaccare le postazioni dei proxy iraniani, i quali in cambio si impegnano a non intralciare le navi in transito sul Mar Rosso. Senza considerare che l’amministrazione Trump muove timidi passi per giungere ad un accordo con l’Iran sul nucleare civile proprio grazie all’intermediazione indispensabile di Putin. In questo scenario magmatico, non si può escludere, come evidenzia il contributo di Francesco Saverio Leopardi (“Trump, visto da Tel Aviv e Gaza“) che, per un’eterogenesi dei fini, possa aprirsi una “finestra di opportunità” nella martoriata Palestina.
In tutto questo rimodellarsi dell’ordine internazionale. l’Europa sembra rimanere alla finestra, ancora una volta. Il ReArm Europe di cui ci parla Andrea Guazzarotti (“Rearm EU e riconversione del soggetto neoliberale“) ha a poco a che fare con il progetto dell’Europa della difesa e assomiglia piuttosto ad un piano di riarmo della Germania. La seconda Presidenza Trump, ancor più della precedente, offriva un ulteriore occasione storica all’Unione europea per affermare la tanto decantata autonomia strategica, per elaborare una propria immagine del mondo multipolare e perseguire finalmente gli interessi strategici dei popoli europei.
E invece. Se l’approccio pragmatico (e se si vuole “transazionale”) di Trump ha almeno dischiuso la possibilità di un negoziato tra le parti in conflitto ad Istanbul, i vertici dell’Unione continuano a fomentare la retorica della guerra alla Russia “fino alla vittoria di Kiev”, sostenendo e dando pieno appoggio logistico e di intelligence agli attacchi ucraini in profondità nel territorio russo (fino a quello più recente che ha colpito alcuni bombardieri strategici in una base situata in Siberia). Insomma, anche l’Unione europea va presa sul serio, ma non troppo, il che non fa che accrescere le nostre preoccupazioni.
Federico Losurdo

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