Magari 4 amici al bar davanti ad un caffè bastassero a risollevare le sorti del riformismo ed il profilo del PD, come ritiene Michele Anzaldi.
Non è così.
Intanto perché quegli amici (le loro idee) sono parte del problema, almeno quanto gli “altri”, e poi perché il nodo ruota solo marginalmente intorno alla coppia riformismo-massimalismo.
Questi si tengono, si intrecciano e si interscambiano come un pendolo, molto più di quanto si dica o si pensi, nella storia del PD dal 2007 ad oggi. Quante volte abbiamo sentito dire da esponenti ”moderati” che il riformismo deve “essere radicale” e che esso non esclude la “radicalità”. Aggiungere l’aggettivo radicale al termine riformismo, che è piuttosto una contraddizione in termini, è stato un grande abbaglio generatore di equivoci, costantemente presenti nella conduzione del partito. Perfino l’attuale segreteria, al di là del giudizio di merito, ne è il frutto, perché scelta in una elezione aperta a tutti, fatta con il consenso di riformisti e sinistra.
Ciò che tiene insieme le due anime è in realtà la discontinuità, la vera cifra del PD fin dalla sua nascita, una discontinuità con la Storia della sinistra italiana e, per certi aspetti, della Storia repubblicana. Il radicalismo ne è il figlio naturale. Ecco perché è riduttivo e fuorviante circoscrivere a queste categorie la riflessione sul futuro del PD dopo la sconfitta del referendum. La riflessione deve invece partire sia dal programma del 2008 che dalle politiche attuate nella non breve stagione di Governo, anche prima del 2007,perchè sono molti i tratti comuni.
Da un lato sono il tema del bipolarismo fino al bipartitismo, l’elezione diretta del Governo, la riduzione del numero di parlamentari, il partito leggero e delle primarie, l’abolizione del finanziamento pubblico. Sul piano del Governo, poi, una forte spinta al “mercato” e la vendita di assetti pubblici importanti, sono stati punti distintivi di quel programma condiviso da tutte le componenti interne. In Italia si è realizzato il più grande piano di privatizzazioni pari a 150 miliardi (Corte dei Conti 2010) nel solo periodo che va dal ’92 al 2007 e che è stato secondo, solo al Giappone. Non si è venduto solo la produzione di alluminio, pomodori o panettoni come era giusto che fosse, ma importanti assetti strategici in capo all’IRI nonché ENI, Enel, Banche Pubbliche ecc . Un cambio radicale della Storia economica del Paese ma anche della sua Storia sociale e politica. Nel suo recente e bel libro (Chiedimi chi erano i Beatles) Pier Luigi Bersani ne fa qualche cenno ma sarebbe stato opportuno che ne parlasse più diffusamente trattandosi di una politica che ha visto i nostri Governi impegnati in prima persona. Lo stesso dicasi per le politiche istituzionali: la improvvida riforma del Titolo V nel 2001 e la Riforma Costituzionale(Renzi-Boschi) che modificava l’Ordinamento della Repubblica in modo profondo e che fu bocciata dagli elettori con il 60% nel referendum del 2016. Certo sulla Riforma del mercato del lavoro, su cui si è votato in questi referendum, ci fu allora e c’è stata ora una forte presa di distanza della sinistra interna, ma questo nulla cambia al dato di fondo di una condivisione larga su decisive scelte politiche e di governo. Dunque, come si vede, la questione è molto più complicata di quanto si possa immaginare. La cosa è ancora più evidente se poi si passa ad analizzare la politica estera espressa nel corso di questi tre decenni, dai Balcani alla Libia all’ Ucraina. Qui c’è lo strappo più consistente con la dottrina di politica estera del cattolicesimo politico e della sinistra storica che il primo dicembre ’77 avevano approvato un indirizzo comune in una Mozione Unitaria Piccoli- Natta alla Camera.
Un discorso approfondito va fatto, anche, sulla CGIL. Qui con maggior nettezza si può cogliere la esigenza di una riflessione strategica di portata ampia, dato l’impatto immediato che le politiche sindacali hanno sulla condizione dei lavoratori. La forte partecipazione del mondo del lavoro al referendum è da valutare positivamente. Essa testimonia di una ritrovata centralità del tema lavoro ma anche di un disagio e di una richiesta di rappresentanza adeguata su tutti gli aspetti che riguardano la produzione e il lavoro a partire dal salario. C’è qualcosa,però, che unisce la vicenda dell’attuale referendum ed alcuni momenti di conflitto sindacale che hanno visto la FIOM come protagonista negli anni recenti. Penso al referendum che si tenne nel 2010 alla Fiat di Pomigliano quando la FIOM perse, pur raccogliendo il 33% e, alcuni anni dopo, nel 2015, quando, sempre a Pomigliano, fallì lo sciopero indetto dalla sola Fiom. Mi colpì molto che in entrambe le circostanze non si sviluppasse un dibattito nel partito e nel sindacato in rapporto a quei due episodi, dato che essi si erano verificati in uno dei più grandi complessi industriali ancora esistenti in Italia e dentro i metalmeccanici. Anche nella Conferenza Nazionale sul Lavoro che si tenne a Città della Scienza il 14 giugno 2012 non ci fu una riflessione su quanto era accaduto l’anno prima. Quel filo rosso che unisce quelle due vicende e il voto referendario attuale richiede a mio parere una riflessione strategica.
In tutti questi casi si è verificata una mancata unità del mondo sindacale. Il rischio che l’ unità sindacale non sia più una priorità strategica è un rischio reale, e questo indebolisce il mondo del lavoro ed è alla base delle sue difficoltà attuali. Ma c’è una alternativa all’ Unità Sindacale e quale potrebbe essere? Una forma moderna di pansindacalismo al fine di ricomporre la sinistra politica? Oppure, la CGIL come parte del blocco per l’alternativa di sinistra così come le Trade Unions con il Labour Party? Queste a mio giudizio sono le vere questioni che stanno di fronte ai gruppi dirigenti della sinistra nel senso più ampio, e dei gruppi dirigenti del PD e del sindacato. Se ne deve riflettere in modo impegnativo in sede appropriata. Occorre una profonda correzione di linea su tutti i punti che ho sommariamente toccato, ricostruendo una connessione con la Storia delle forze popolari cattoliche e della sinistra che hanno retto il Paese dal dopoguerra fino agli inizi degli anni 90. Non è necessario separarsi; una riflessione serena e approfondita può produrre una nuova sintesi e cioè un programma e un partito che facciano tesoro degli errori.
Arturo Marzano