E LA DISCUSSIONE CONTINUA NELLA GIORNATA CONCLUSIVA DELLA BERLINGUERIANA 2025 SABATO MATTINA 28 GIUGNO AD ACERRA CON L’ASSEMBLEA DI INFINITIMONDI APERTA A TUTTI COLORO CHE VOGLIONO CONFRONTARSI

Il merito di questi referendum, dei primi quattro quesiti sul lavoro e del quinto sulla cittadinanza, è stato quello di portare al centro del dibattito politico due temi fondamentali per la vita concreta di milioni di persone.
Non fuffa, polemiche sul colore dei vestiti, sul regime alimentare di Salvini, o altre amenità simili, ma cosa succede nella carne viva dell’esistenza: se mi licenziano senza giusta causa, se ho un incidente sul lavoro, se e perché mi assumono con un contratto a tempo determinato, quante pastoie burocratiche e quanti anni devo aspettare, pure essendo nato e cresciuto in Italia, per essere considerato italiano.


È per questo abbastanza grottesco che alla chiusura delle urne il dibattito politico sia ripiegato su sé stesso, su quale forza politica abbia vinto o perso, sulle faide interne alle coalzioni e ai partiti, con tutti – o quasi – a dispensare postume e gratuite lezioni di consenso, egemonia e partecipazione.
È evidente che chi ha proposto i cinque quesiti referendari sperava di raggiungere il quorum e che il Sì vincesse. Possiamo dare per assodato che chi rispetta la Costituzione non la usa per fare sondaggi, come – allo stesso modo – ci sembra acclamato che accusare i promotori del referendum di spreco di risorse pubbliche (come fa un pezzo di destra di governo) dopo aver speso quasi un miliardo di euro per deportatare un centinaio di migranti in Albania pure appare assai singolare.


Così come, lo diciamo subito per evitare fraintendimenti, non c’è errore peggiore che pensare di avere l’autorità morale di rilasciare patenti di civismo sul voto e sul non voto: la prima cosa che mi hanno insegnato quando sono entrato in una sezione a 16 anni è che gli elettori hanno sempre ragione, pure quando hanno torto. E che non c’è modo migliore di preparare una successiva sconfitta che quello di non aver capito le cause della precedente.
D’altronde, ogni elezione è una storia ed una motivazione individuale e collettiva in sé. Io, ad esempio, ho sempre votato ai referendum, perché – ma mi rendo conto sia un fatto o soggettivo, quasi personale – considero un fatto straordinario avere il potere di legiferare.
Ho votato anche al referendum sulle trivelle, ad esempio, quando Renzi ed il mio partito al governo incitavano all’astensione, e Giorgia Meloni all’opposizione accusava il governo di boicottaggio e scarsa cultura democratica. Ma penso nessuno mai abbia potuto pensare di ascrivermi tra gli elettori di Fratelli d’Italia.


È però altrettanto evidente che, in ogni caso, milioni di persone che si recano alle urne esprimendosi in maniera cosi netta su un modello del mercato del lavoro e sui rapporti di cittadinanza sono un evidente ed imponente fatto politico. Qui, ora, ma soprattutto, in prospettiva, dopo.
Non coglierlo, addirittura irriderlo, è elemento di scarsa lungimiranza, o se volete malafede.
Il tema dunque, card e slogan a parte, è proprio questo: cosa significano nel bene e nel male quei circa 13 milioni di Sì sui 4 referendum sul lavoro, e quei quasi 10 milioni di Sì (e 5 milioni di No) sul referendum sulla cittadinanza.
Cosa significano come espressione democratica e popolare di volontà, richiesta di rappresentanza, come spazio politico (non bacino elettorale) di agibilità.
Noi veniamo da anni nei quali, tra un governo tecnico e l’altro, e qualche errata interpretazione della nozione di riformismo, si è radicata profondamente nella società – prima ancora che nei media e nei partiti – l’idea che qualsiasi pensiero alternativo allo stato delle cose fosse di per sé residuale o destinato alla residualità, marginale, irrilevante. Che la differenza tra destra e sinistra fosse cosa diversa dall’idea di società che si aspirava a costruire, dai blocchi sociali rappresentati o rappresentabili, ma fosse solo una questione di bon ton, di etichetta. Che la politica non fosse più uno strumento per ridistribuire risorse e potere ma solo per cristallizzarle. Che la flessibilità e la competizione fossero la ricetta a tutti i costi, che la salvezza o l’emancipazione fossero un fatto individuale. Che fosse normale come il manager con il maglioncino potesse disporre anche della pausa pipì degli operai di Pomigliano e Termini Imerese, nel mentre il suo stipendio era superiore 2mila volte a quello del salario medio di un operaio. Da anni di daspo urbani e decreti sicurezza, di lager in Libia, di ong “taxi” dei migranti, dell’equazione diversità-pericolo accettata come teorema indimostrabile, e tutto senza soluzione di continuità dalla stragrande maggioranza degli attori politici in campo.


Per questo, questi 5 referendum persi sono invece una prospettiva di lotta, e di soggettività politica da costruire. Non sulle formule astratte ma sulla concretezza delle cose.
Poi non sfuggono a nessuno, men che meno a me, i limiti, gli errori, le contraddizioni.
Di un sindacato la cui capacità di mobilitazione e radicamento è forse percepita a livello centrale in maniera troppo ottimistica rispetto alla realtà. Di partiti non più preparati alla lotta politica sui temi, avulsa dalle preferenze o dalla competizione elettorale per l’elezione di qualcuno. Del dato e dei posizionamenti circa il referendum sulla cittadinanza, che segnala i cortocircuiti e le lontananze più evidenti e preoccupanti.
E però, c’è lo squarcio. Che come ogni inizio, è una buona notizia.

Michele Grimaldi

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