Ieri ho provato a caldo a proporre una linea essenziale di valutazione sul voto appena espresso. ( https://www.infinitimondi.eu/2025/06/09/note-a-margine-27-una-base-e-una-linea-da-cui-ripartire-se-si-sapra-rispondere-al-tema-politico-che-il-referendum-ha-posto-ma-che-non-poteva-risolvere/ ).

Ero preoccupato, e lo rimango tuttora, dal fatto che il risultato potesse spingere ad un sentimento di delusione e di rassegnazione quando invece, nonostante tutto, esso ha espresso più di un segnale di reattività e fornito indicazioni che meriterebbero di essere approfondite.

Cerco sulla stampa riflessioni e commenti stimolanti e, a dire il vero, ne trovo davvero pochi: prevale il vezzo, nei grandi quotidiani d’opinione, che poi sono tutti grosso modo di un’unica opinione…, o di dare la linea o di affermare con sicumera oggi certezze quando fino a poco prima avevano sostenuto il contrario…insomma, davvero poco da leggere.

Do’ conto invece di alcuni commenti, made in Campania, Lucio Fierro, storico esponente della sinistra irpina, ci ha inviato la riflessione che trovate di seguito. Tre le altre cose, in modo intelligente, polemizza con la campagna della destra sul non voto, scandalosa non perchè illegittima ma, osserva Lucio, operazione ” cinica e disinvolta in quanto rovescia completamente l’assunto che “conta solo chi partecipa” su cui si regge la sua legittimazione a dirsi “maggioranza del popolo italiano”.

Trovate a seguire anche la riflessione di Vito Nocera da contropiano.org. Vito insiste, a fronte di un risultato ampiamente prevedibile, sul bisogno di una inedita capacità della sinistra, anche quella sindacale insieme a quella politica, di calarsi nella nuova e frantumata condizione di un diffuso proletariato frutto delle trasformazioni neocapitalistiche. Non credo abbia torto Vito. Credo che senza questa capacità di re-immersione nel vivo di una condizione sociale, da questo essere classe in se’ ben difficilmente questo mondo frantumato e precarizzato potrà acquisire coscienza di classe per se‘. Il tema che vedo, e su cui mi piacerebbe continuare a discutere con lui, è che in queste trasformazioni è cresciuto anche un insieme di attività lavorative ad alto contenuto di conoscenza e intellettuale, spesso anche di alto profilo, ma oggi ingabbiate in modo totalmente dipendente dalle logiche estrattive e che invece potrebbero rappresentare un punto di contraddizione forte con l’assetto attuale e diventare parte di una alleanza sociale tra lavoro creativo e lavoro frantumato e precario. Figure largamente chiave dell’economia della conoscenza e digitale che pure tiene insieme lavoro ricco e lavoro poverissimo e seriale. Questo non contraddice ma complica e se volete completa il quadro che Vito prospetta. Ovviamente c’è chi teorizza, non solo a destra ma anche a sinistra, che nella fluidità delle trasformazioni neocapitalistiche, un discorso di classe è ampiamente superato, che non è il lavoro il punto da cui ripartire, e che quindi, in questa società ridotta a individui polverizzati l’unico terreno di ricomposizione è quello dei diritti di cittadinanza ( riflette criticamente su questo l’ultimo bel lavoro di Pier Giorgio Ardeni che abbiamo discusso a Napoli non molti mesi fa https://www.infinitimondi.eu/2024/11/26/giovedi-28-novembre-a-napoli-incontro-con-pier-giorgio-ardeni-e-il-suo-le-classi-sociali-in-italia-oggi-laterza-in-discussione-con-gianfranco-nappi-enrica-amaturo-e-antonio-bassolino/). In fondo poi, a ben vedere, quest è l’assunto cotitutivo della cultura politica del PD. Un piano che non esclude anche radicalità di battaglia ma che si muove tutto sul terreno del sistema come dato e non modificabile nei suoi elementi costitutivi e della democrazia come gabbia, che ti omologa senza consentirti di sviluppare una visione progressiva di trasformazione del sistema.

Ma insomma, torniamo al tema di Vito, di questa re-immersione sociale, che è anche di conoscenza e di vicinanza. Chi la decide? Chi la costruisce? Con quali tappe e con quali protagonismi? Può esistere un politico senza il sociale e un sociale senza il politico?

Ecco il nervo che il Referendum mette a vista e lascia del tutto scoperto.

E qui davvero, come Vito dice ” la fragilità di chi mena la danza delle opposizioni è fin troppo evidente.

Mutuo dal Mario Tronti postumo, che peraltro il prossimo 30 giugno per iniziativa di Massimiliano Amato discuteremo anche a Salerno, l’espressione di ‘collasso della plancia di comando politico ‘.

Collasso generalizzato. Ma che certo investe direttamente anche la sinistra.

E allora, vengo ad un inciso della riflessione che propone Pasquale Trammacco, che pure trovate a seguire, che invoca ” La necessità di una fase costituente volta a ricostruire un sistema di coerenze per riattivare la partecipazione, soprattutto giovanile dal non voto costituisce un obiettivo difficile e soprattutto lungo. Prima sì comincia meglio è.”

Fase costituente, se intendo bene e se le parole hanno un senso, perchè c’è bisogno di qualcosa che oggi non c’è, che le forze politiche esistenti strutturalmente non possono dare e che solo da una scomposizione-ricomposizione su basi nuove può derivare in termini di adeguatezza e di cultura politica nuova.

Io credo che di questo ci sia bisogno. In modo ogni giorno più evidente.

Incontriamoci alla nostra Berlingueriana e continuiamo a discuterne!

Gianfranco Nappi

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LUCIO FIERRO: UN POPOLO SU CUI CONTARE INTERROMPENDO PRATICHE COMPROMISSORIE

Un dato elettorale lo si commenta quando è definitivo. A quello del referendum mancano ancora 32 plichi esteri (grosso modo un ventimila schede), e ci rassegna le seguenti cifre:

  • Hanno votato oltre quindici milioni e duecentomila elettori ben al di sotto della metà più uno di votanti che era necessaria;
  • Hanno votato SI al primo referendum, il più significativo, quello sulla reintegra dei licenziati 13.031.470 elettori;
  • E’ un numero di voti che supera di ben 437.432 il consenso raccolto in 12.594.048 voti dalla destra e da cui è scaturito il suo diritto a governare l’Italia alle elezioni politiche e che ne hanno fatto la coalizione che governa l’Italia.

Certo, il quorum non è stato raggiunto e per parecchio. E’ la conferma, se ce ne fosse stato bisogno, che il referendum non aveva alcuna possibilità di essere vinto. Su temi identitari e divisivi che in qualche modo tracciano anche parte del profilo identitario di destra e sinistra in un contesto nel quale la disaffezione politica tiene lontani dai seggi una percentuale di elettori che non è mai è inferiore al 33% portare al voto la metà degli elettori è una chimera.

Ma ora è del tutto secondario indagare le ragioni di un tale macroscopico errore ed è meglio stendere un velo pietoso di silenzio.

La destra canta vittoria. Ha vinto, nel senso che ha ottenuto il risultato che voleva, quello di non essere sconfitta e quindi umiliata nella sua pretesa di “rappresentare il popolo italiano” e può godere di quanto è avvenuto.

Ma sarebbe più utile per la Meloni ed i suoi abbandonare i toni trionfalistici e avviare qualche riflessione vera su ciò che veramente il voto dice.

Una delle caratteristiche della Meloni è il convincimento che in una democrazia l’unica cosa veramente sacra sia ciò che il cittadino elettore pensa. Pur rappresentando appena un quarto degli elettori italiani aventi diritto al voto e meno della metà di quelli che la scheda l’hanno deposta, la Meloni sostiene di rappresentare la maggioranza del popolo italiano… Può dirlo, senza che gli si rida dietro, solo perché una concezione puramente formale della democrazia dice che a contare siano solo coloro che la scheda la depositano e gli altri, beh, è come se non esistessero; può dirlo perché la democrazia è diventata una gara tra chi arriva prima, a prescindere di quanti cittadini effettivamente rappresenti. E Lei indubbiamente il 2022 è arrivata prima!

Ma oggi, stranamente tutto questo che è alla base dall’arrogante affermazione di sé e della sua coalizione, lei lo cancella.

C’è stata una gara, come per le elezioni politiche. Anzi una gara più semplice, di quelle che piacciono alla destra, a cui la “complessità” non va molto a genio… Le squadre sono due, il SI e il NO. Ma una delle due, la sua, la ritira prima della partenza. E’ suo diritto di farlo. Ed a questo suo diritto non rinuncia pur consapevole che si tratta di una operazione scandalosamente immorale pur se rispettosa delle regole formali della gara.

E’ stata una operazione cinica e disinvolta in quanto rovescia completamente l’assunto che “conta solo chi partecipa” su cui si regge la sua legittimazione a dirsi “maggioranza del popolo italiano”.

Impediamo alla destra le strombazzate: le questioni su cui si è votato non sono “trasversali” ma “identitarie” e non è infondato dire che i SI ai quattro quesiti sul lavoro esprimono oggi la forza di uno schieramento antagonista dalla chiara identità “progressista”. Sta qui, come stava sabato scorso a Roma il “popolo” su cui contare per battere la destra. Esso può ancora allargarsi a tanti che restano ancora inerti e sfiduciati se i messaggi provenienti dalle forze politiche che di questo popolo sono il riferimento (PD, Verdi-Sinistra e 5stelle) restano unitari, netti ed univoci. Questo nostro mondo ha il dovere di non chiudersi, di tentare di acquisire allo stesso campo anche a forze moderate, che per Gaza hanno preferito andare soli e che nei quattro referendum hanno votato NO (Renzi, Calenda, quello di +Europa) [con un discorso a parte per i cosiddetti “riformisti” del PD], ma nella chiarezza e senza annacquamenti, imparando anche dalle modalità con le quali la destra mantiene unito il suo eterogeneo mondo, affidando alla saggezza degli elettori la definizione dei pesi relativi nella coalizione.

La sinistra e soprattutto il PD, possono farsi male da soli; basterà non capire il senso dei segnali che stanno dando la piazza per Gaza, il voto sul jobs act e quelli delle elezioni amministrative e lasciandosi impegolare in vecchie pratiche compromissorie.

Lucio Fierro

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VITO NOCERA: ORGANIZZARE IL NUOVO PROLETARIATO DELLE TRASFORMAZIONI DEL CAPITALE

Siamo andati al voto, anche i non pochi che avevano più di un dubbio.

Dubbi non tanto sui quesiti ma sull’azzardo di lanciare la sfida non tenendo conto delle condizioni reali dei rapporti di forza sul campo.

Siamo andati alle urne quasi per carità di patria, di una “patria” che però ormai forse non c’è più da tempo.

Ho scarso interesse a mettere sotto accusa questo o il tal altro, questo classico esercizio – in cui parte del nostro mondo è maestro – è da anni solo la scorciatoia che impedisce di capire i veri nodi.

E poi la fragilità di chi mena la danza delle opposizioni è fin troppo evidente.

Quel che invece credo oggi vada fatto è finalmente aprire una riflessione a tutto campo.

Spero che l’era in cui, più che il conflitto sociale, basta riunirsi davanti a un gazebo e poi pubblicare foto in rete sia conclusa per sempre.

Cosa deve succedere ancora per vedere che chi mima l’opposizione oggi non ha un corpo sociale?

Immagino già l’obiezione.

Hanno votato comunque un po’ di milioni di persone, ripartiamo da qui, eccetera eccetera.

Quante volte ho sentito questo ritornello dopo un referendum perso.

L’ illusione di quei voti dura come l’ultima pallida traccia della luna al mattino presto.

Qualche minuto e col dispiegarsi del giorno si dilegua.

Certo, ci sarebbe la bella prova della manifestazione per Gaza.

Importante e speriamo utile a mettere pressione ai governi.

Al nostro, a quelli di Usa e Europa, a quello di Tel Aviv.

Non giurerei però che basti a ricostruire qui rapporti sociali più favorevoli.

Siamo al dunque del nodo vero.

Le cose che si fanno riguardano temi, non soggetti.

E’ invece dai soggetti che occorre ripartire.

In particolare da chi incarna le nuove forme del lavoro di oggi.

Chi interloquisce spesso con questi miei scritti sa che insisto da tempo.

Senza il lavoro vivo, cioé i nuovi lavoratori in carne e ossa.

Senza la loro funzione nella produzione e la riproduzione sociale del capitalismo contemporaneo.

Non c’è troppa speranza di invertire la tendenza.

E’ un nuovo movimento del lavoro che deve rientrare in campo, con i suoi soggetti e i suoi conflitti.

Anche per stringere gli avversari (quelli che soprattutto incarnano il capitale) a un nuovo compromesso sociale.

Senza questa nuova e inedita irruzione operaia a competere a modo loro con il capitale, per paradosso, continueranno ad essere le destre ‘sovraniste’.

Che non a caso – piaccia o no – ci hanno sottratto di fatto il consenso dei ceti popolari.

Mi sembrano nell’essenziale questi i nodi dai quali ripartire.

I fili da districare.

E a questa grande inchiesta sul lavoro vanno dedicati tutti gli sforzi.

E’ stata la classe operaia degli anni 60 – 70, che divenne protagonista sociale di massa trascinando studenti e intellettuali, a dare forza e nerbo a sindacati e sinistre.

Quella stagione è ormai lontana, tramontata da tempo.

Le grandi trasformazioni del capitalismo, le formidabili innovazioni scientifiche, fino alla odierna intelligenza artificiale, hanno definitivamente spiazzato la forza di un tempo.

Non c’è rendita di posizione che tenga.

O si riorganizza, insieme al residuo fordista, il nuovo proletariato, quello di chi lavora nei mille mestieri dell’economia attuale, o la sinistra è finita.

So bene che è difficile.

Il corriere che ti porta la merce a casa, o il rider della pizza, il giovane che viene a riparararti il PC a domicilio o gli addetti ai grandi depositi della logistica, non sono gli operai di un tempo.

Spezzettati, spesso precari e senza organizzazione, neppure sappiamo cosa pensano, se davvero intendono organizzarsi o se a loro va bene così.

Chi si preoccupa di interrogarli, avvicinarli, capire come vivono il proprio lavoro e che bisogni hanno?

Il loro spesso è un lavoro super sfruttato, faticosissimo, governato da lontano dalle grandi piattaforme tecnologiche del nuovo capitalismo transnazionale.

Per provare a intercettarne gli umori ci vogliono cose serie, impegnative, lavoro paziente.

Cosa vuoi che gli interessi a questi soggetti qui dell’ansia propagandistica dell’allegra brigata delle nostre opposizioni politiche e sindacali?

In fondo, ridotto all’osso, questo ci dice l’esito – già scritto – di questo referendum.

Altro che le cose che si leggono sul popolo che non comprende e così via.

O peggio, chi legge la sconfitta tutta in chiave politicista. Dando responsabilità a chi nel PD avrebbe tradito la Schlein.

Lo stesso schema con cui si interpretò la sconfitta di Berlinguer ai cancelli della Fiat nel 1980 e poi nel referendum sulla scala mobile.

Anche lì, certo che gli avversari interni ebbero un peso.

Se però si fosse provato a dialogare con il ’77, quel movimento di giovani scolarizzati pur – lo riconosco – molto radicalizzato.

A prendere atto della nuova composizione di classe da lì emersa – invece di bollarli di “diciannovismo” – forse gli operai Fiat e Berlinguer in quella loro resistenza ai cancelli non si sarebbero poi ritrovati isolati.

Insomma, altro che prendersela con il popolo che non ha votato.

Qui a continuare a non capirci niente siamo noi. E dico “noi” ancora per carità di patria.

Ma continuare ad essere sordi e ciechi ormai non è più consentito.

Cosi come non si può continuare con una opposizione solo mimata in favore di telecamere, né andare dietro a talk ossessionati da Meloni, che invece tacciono chirurgicamente sui veri nodi di classe.

E basta con la delega a rappresentare la sinistra concessa a buon mercato ai gruppi economico-finanziari del capitalismo nostrano ed europeo.

E’ il momento di andare al dunque della materialità delle questioni.

Di provare a riorganizzare un nuovo blocco sociale.

Se ci riesci torni in campo.

Altrimenti perdi.

E non è colpa del popolo.

Vito Nocera

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PASQUALE TRAMMACCO : LA NECESSITA’ DI UNA FASE COSTITUENTE

Il combinato disposto tra la manifestazione di sabato 7 giugno con i suoi 300 Mila partecipanti e i 15 milioni di elettori al referendum offrono il quadro da cui partire.

A Roma, nella confusione di bandiere e presenze si è avvertita finalmente la presenza di un popolo capace di lasciarsi alle spalle odi e steccati identitari. In un paese senza memoria bisognerebbe ricordare da dove si partiva nella frantumazione del blocco sociale del centro sinistra.

Al referendum abbiamo perso ma con onore riattivando una partecipazione ed una iniziativa che mancava da anni.

Onore, anche qui, ai gruppi dirigenti che ci hanno portato sin qui. Abbiamo la possibilità di sconfiggere questo fascismo rinascente a cui si è consegnata l’Italia mentre dilaga nel mondo.

Quello che resta evidente è l’insufficienza della strumentazione politica disponibile. Certo, nelle battaglie che ci aspettano abbiamo bisogno di tutti ma alcune dichiarazioni post voto risultano irricevibili ed inaccettabili.

La necessità di una fase costituente volta a ricostruire un sistema di coerenze per riattivare la partecipazione, soprattutto giovanile dal non voto costituisce un obiettivo difficile e soprattutto lungo. Prima sì comincia meglio è.

Pasquale Trammacco

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1 commento

  1. Lo dico subito, a scanso di equivoci, e di interpretazioni troppo confort e troppo autofustiganti: il referendum è stato perso sulla sciocca accettazione della provocazione “riformista”. Lo slogan relativo alla risoluzione di conti interni è stato prodotto dalla minoranza del Pd, spalleggiata ovviamente dal mondo renziano, il giorno dopo che Schlein aveva ottenuto il si del partito alla campagna referendaria. Bisognava isolare come la peste questa provocazione, invece Schlein, Boccia e Landini ci sono talmente cascati che anzi hanno allargato la portata della consultazione sul terreno della legittimità del governo. Come era ovvio, la destra ne ha approfittato per lavarsi le mani di tutto accreditando l’idea che fosse un fatto interno a “quelli lì””, e ha vinto la volata “rialzata”, come dicono i ciclofili. Questo è il primo livello di spiegazione politica di ciò che è accaduto. Non il più rilevante, ma proprio per questo andava precisato subito, anche per svelare proclami abbastanza sciocchi che proseguono su entrambi i fronti. C’è poi un altro livello di lettura, di carattere trasversale, e riguarda il tema della democrazia per come si realizza nel combinato disposto fra referendum e parlamentarismo. E’ un tema istituzionale, più che strettamente politico. Su cui vorrei essere quasi didascalico, e dire che un referendum può articolare tre tipi di scelta:
    1) Vado al seggio, e voto, si o no.
    2) Non vado a votare perchè ritengo il quesito stupido, non degno di un processo legiferativo quale anche il referendum abrogativo è. Faccio outing: l’ho fatto anch’io una volta, su un referendum sulla caccia. Naturalmente rivendico che un minimo di sincerità dovrebbe portare tutti a ritenere che questo non era il caso: i quesiti riguardavano cose comprensibilissime, dal reintegro agli anni per la cittadinanza, mica erano un trattato di meccanica quantistica scritto in aramaico. La logica assurda dei “conti interni” ha prodotto su questo un testacoda del riformismo italiano: se guardate i risultati scoprite che forse il No, che era l’atteggiamento più sincero dei contrari, avrebbe persino potuto vincere; sarebbe stata quella sì una vittoria politica clamorosa, significativa, invece si è preferito nascondersi vigliaccamente dietro la maschera dell’astensionismo al solo scopo di mettere in difficoltà Landini e Schlein, salvo rimanere a propria volta largamente minoritari e ininfluenti di fronte al fatto che, ovviamente, Meloni e co proseguono per la propria strada. giustamente dal loro punto di vista.
    3) Non vado a votare perchè ormai ho dei dubbi strutturali su questo strumento e sul come esso rischi di entrare in maniera troppo avventuristica sul processo di formazione delle leggi in Parlamento. Naturalmente questo è un argomento degno, ma è indipendente dai temi proposti, e altrettanto naturalmente è stato avanzato in una versione hackerata, quella del diritto di non votare, addirittura con uno strano Bignami della Costituzione che avrebbe introdotto all’epoca questo istituto del “non voto”. Ignari, tutti costoro, del fatto che, se non mi fornisci uno scheletro “politico”, cioè un giudizio di merito (e quindi un No) alla decisione di non votare, il diritto di non esercitare un diritto diventa una scatola vuota, di fonte alla quale il commento più logico è: “grazie tante, ci mancava solo che la Costituzione mi ci obbligasse”. Sicchè ciò che ci resta del diritto all’astensionismo è invece il virus più insidioso della nostra democrazia, diffondere l’idea che sia democratico il rinunciare all’uso della democrazia stessa, un cancro che infatti metastatizza anche le elezioni politiche.
    Quest’ultimo è, in verità, il tema dei temi, e non ha nulla a che vedere col fatto che vinca Meloni o Schlein, Cgil o Cisl. Semmai col fatto che continuiamo a perdere tutti, anche se non c’è una sola centrale politica che non si faccia allettare di volta dalla scorciatoia del “pochi, ma nostri”. Ecco perchè, pur comprendendo le secche e scogliere da attraversare, non sarebbe male una riflessione che ripartisse, perchè no, anche dalla legge elettorale, a favore di un recupero della dimensione partecipazione/rappresentanza su quella del governo/vince chi prende di più. En passant, la questione riguarda anche l’assurdo dibattito sul terzo mandato, dove orde di “costituzionalisti” proclamano l’ingiustizia del limite in nome della libertà del consenso, ma senza sapere più la differenza fra un presidente di Regione e un Parlamentare, e soprattutto senza poi andare a votare davvero, come insegnano i dati di astensione, alla faccia del consenso.
    Risolta questa faccenda, resta poi la questione di area, su cui considero, peraltro da tempo, le riflessioni di Vito la base di partenza per la discussione. Ma poichè penso che questo referendum non abbia detto granchè su questo, neanche sul delicatissimo tema della non rappresentanza sindacale dei nuovi lavoratori non garantiti, rinvio il tema a un “congresso” più specifico sulla vasta materia.

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