ABBRACCI NEGATI
A scuola, quante volte abbiamo sbuffato leggendo passi dell’Eneide che agli occhi di noi adolescenti risuonavano come superflui e a volte incomprensibili. E così si sorvolava sull’incontro nei Campi Elisi, non quelli di Parigi, ma quelli degli Inferi, tra Enea e il padre Anchise; o al massimo lo si considerava in chiave sentimentale: un figlio che abbraccia il padre, come per gli auguri alla festa del 19 marzo. Eppure ci sono tre versi, che riletti oggi, hanno qualcosa di attuale, e anche di sconvolgente.
Mentre così dicea, di largo pianto/ Rigava il volto, e distendea le palme;/ E tre volte abbracciandolo, altrettante/ (Come vento stringesse o fumo o sogno)/ Se ne tornò con le man vote al petto. (Eneide lib. VI vv. 700-702)
Enea sta parlando col padre, gli si avvicina per abbracciarlo, ma gli riesce impossibile. Eppure il divieto imposto per il “coronavirus” di non stringere mani e di non abbracciare nessuno, nessuna autorità lo aveva emanato ai tempi di Enea.

Allora che cosa voleva significare con quei versi il Poeta?Veniamo ai giorni nostri, quelli della clausura casalinga e della morte per contagio a causa della pandemia. Tragica e commovente questa testimonianza,del 16 marzo 2020,che si può leggere tra Le Riflessioni Quaresimali e della domenica curata dall’Associazione Cuore Sano ONLUS di Campobasso. Si riportano queste parole della dottoressa Francesca Cortellaro:« Sai quale è la sensazione più drammatica? Vedere i pazienti morire da soli, ascoltarli mentre t’implorano di salutare figli e nipotini. I pazienti Covid-19 entrano soli, nessun parente lì può assistere e quando stanno per andarsene, lo intuiscono. Sono lucidi, non vanno in narcolessia. È come se stessero annegando, ma con tutto il tempo di capirlo. L’ultima è stata stanotte. Lei era una nonnina, voleva vedere la nipote. Ho tirato fuori il telefonino e gliel’ho chiamata in video. Si sono salutate. Poco dopo se n’è andata”. Il Poeta mantovano (ma anche Omero – Odissea XI- aveva fatto vivere la stessa sensazione di abbraccio impossibile ad Ulisse, pure lui pellegrino nell’Ade, quando incontra la madre, Anticlea,) ha voluto rappresentare con immagini toccanti l’impossibilità, che a noi è imposta, di manifestare il nostro affetto nelle forme più umane, come la stretta di mano, l’abbraccio, il bacio. O meglio possiamo anche farlo dove e quando ci piace, ma dovremmo altrettanto essere consapevoli che in alcuni momenti non ci sono consentiti simili gesti e, se tentiamo di farlo, abbracciamo e parliamo con delle ombre.
E così avviene per le lezioni on line, a causa delle scuole chiuse. Sono lezioni nell’Ade, fossero anche nei Campi Elisi: possiamo parlare con gli alunni e questi parlare ai loro docenti con la tecnologia più sofisticata. Ma, se proviamo a stringere loro la mano o ad abbracciarli, si toccano ombre sullo schermo. Dovremmo ricordarcene quando saremo ritornati a muoverci liberamente nei nostri paesi, nelle nostre città, nelle aule scolastiche. I momenti in cui possiamo stringere la mano o abbracciare qualcuno o baciare un bambino sono troppo importanti perché li trascuriamo.
L’illusione di avere tra le mani qualcosa che non si può avere non va riferita solamente ai sentimenti di affetto. Perché la ritroviamo in tante e diverse altre occasioni. Come coloro che hanno creduto e credono di avere in mano le leve del comando, perché vengono chiamati a digitare sì o no – on line – a domande che richiedono risposte di ben altra ponderazione. Anche essi abbracciano ombre.
Virgilio Iandiorio Docente e Dirigente scolastico

PERCHÉ NON DOBBIAMO SPERARE!
Si è potuto dimostrare che il vocabolario dei Greci disponeva di un lessico sterminato. Con tanta ricchezza terminologica il pensiero spaziava dentro orizzonti illimitati di percezioni, di intuizioni, di espressioni, di concezioni e di interpretazioni del mondo che facevano di quel popolo gli investigatori di ogni ramo del sapere. Questo in larga misura spiega pure perché hanno eccelso in ogni arte e in ogni conoscenza, nessuna esclusa. Avevano fra l’altro concepito la natura come il luogo del divenire, il luogo del continuo nascere. Natura equivale a “nascitura”, ossia ciò che è in continuo divenire. Questo è pure il senso che a “natura” attribuiva Lucrezio nel De rerum natura.
Vincolati come erano alla dimensione inafferrabile e imprevedibile della natura, i Greci ritenevano, dunque, che l’uomo non potesse piegarla con la tecnica. Lo ricorda Eschilo quando mette sulla bocca del suo Prometeo incatenato il grido di disperazione dell’inanità dell’uomo incapace di domarla. Ce ne accorgiamo in tempi di coronavirus. L’uomo si difende e vince pure, ma sempre pagando un tributo terrificante in termini di morte e di dolore. Quando avremo debellato il male che ci affligge oggi, dovremo già essere pronti per affrontare il prossimo perché, inesorabile, la natura già lo cova. Questa è la sua regola, la sola dove il divenire è una costante evoluzione. Per i Greci, perciò, il verbo sperare non aveva praticamente senso. Sapevano che la vita è lotta e ha regole ineluttabili che l’uomo non può modificare. Sapevano pure che l’uomo è il mortale. Thnetos e brotos, dicevano, in contrapposizione con gli dei che sono immortali. Il cristianesimo ha stravolto questa logica e con un percorso di pensiero tortuoso ci ha porto il conforto della SPERANZA con la fede nell’immortalità. La morte, quindi, non è più il termine ultimo del nostro esistere, ma la porta della vita eterna. Pagine straordinarie sono state scritte da Umberto Galimberti su questo tema. Speranza è purtroppo però solo sostanza di sogni. Sperare è verbo della passività, è abdicazione, è il rimettersi a chi o a qualcosa che agisce per noi e risolve i nostri drammi esistenziali. Inesorabilmente poi, sperare diventa il verbo della disperazione quando le attese sono deluse. Imparare a mettere da parte le speranze consente di riscoprire la volontà di essere. È questa volontà che dà senso alla vita, ci enuclea dalla genericità e ci dà un’identità. Solo mettendo da parte la speranza cancelliamo le incertezze. Non conta il risultato conta la decisione che a esso ci permette di giungere. Perché, se in natura tutto avviene secondo la logica deterministica della causa e dell’effetto, non è possibile pervenire alla causa con la “speranza”, con l’”augurio” che il miracolo possa modificare l’evento, con l’”auspicio” che tutto possa andar bene senza la nostra azione. Non possiamo aver stima per quelli che hanno il compito di fare e cominciano dicendo: Speriamo che… Significa: “Io rinuncio e mi rimetto al caso.” Ancora peggio i medici, che dobbiamo disistimare quando iniziano col dire: Speriamo che… È la disperazione assicurata, il fallimento della ragione. Il medico è tale se cerca la formula, se trova l’antidoto, se cura. Non se prega e spera che per alchimia possa aver luogo quella reazione che invece avviene solo per chimica.
La speranza, ahimè, non appaga che sogni e non nutre che incertezze. Non basta quando la realtà ferocemente incombe e hai bisogno di indagine e conoscenza per giungere alla causa. Tuttavia, è proprio quando più forte si fa il bisogno di sapere che la speranza occupa lo spazio necessario alla riflessione. È allora che diventa un crampo della ragione. Il bisogno di certezze non viene dalla speranza ma dal lavoro silenzioso del ricercatore. È la scienza che trova il vaccino capace di curare il male che mi uccide.
Quando giungono i tempi bui della sofferenza occorre spezzare le pastoie dei sogni. È allora che abbiamo bisogno di tutta la determinazione delle nostre nature. Rinunciare a decidere equivale a soggiacere alla disperazione, è un indifferente rimettersi alla clemenza del fato. Non può star bene a nessuno. Lottare è vivere. Cercare è consapevolezza. Che siano perciò l’impegno e l’ottimismo la nostra lucida scelta di vita.

Vittorio Russo Scrittore

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4 commenti

  1. L’articolo spazia tra riferimenti al mondo classico, inevitabilmente attuali, coniugando perfettamente una sottile ironia con una amplia discussione su un tema a noi oggi molto vicino. Consigliato per degli interessanti spunti di riflessione.

  2. Due pagine molto significative :
    – danno grande risalto alla forza della cultura classica, che può ancora venirci in soccorso in periodi umanamente difficili,
    – ci lanciano messaggi da accogliere, condividere e farne tesoro.

  3. “22 giorni di reclusione …ma resiste”, così mi scrive a commento di quest’articolo una mia amica, mamma di uno studente liceale dell’ultimo anno. “Ci si ritrova in pieno in quello che scrive il prof. Iandiorio, abituato com’era agli abbracci con gli amici in primis (tutti gli altri veniamo dopo). Non poterlo fare attraverso lo schermo gli procura tanto dolore.” E un’altra mamma, pure di studente all’ultimo anno, “Mi dispiace molto vedere mio figlio studiare on line e concludere il suo percorso scolastico in questo modo così asettico. Bel pezzo, coglie nel segno.”

  4. Il commento di un’amica sulla riflessione del prof. Russo – “Stamattina, mentre aspettiamo la terapia di mamma, arriva un prete/dottore che ci invita alla speranza. E’ vero, la speranza non risolve i drammi …la volontà ci fa “essere”, ma spesso è proprio questa speranza che nutre la nostra volontà, la volontà dei ricercatori di poter trovare un vaccino per salvarci tutti, o quasi. La speranza dà una mano alla volontà, e viceversa, per andare avanti”

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