La genealogia del contemporaneo

L’arte racchiude sempre, al suo interno, la traccia di un discorso con il passato. In primo luogo c’è il passato dell’arte stessa, per quello che riguarda le tecniche e le pratiche di produzione degli oggetti che si sono sviluppate nel corso del tempo, ci sono inoltre tutti i rapporti molto complessi e articolati con la tradizione in termini di maestri, scuole, aree geografiche, forme stilistiche. Emerge però nell’opera d’arte anche quella fitta rete di rimandi con il tessuto delle pratiche di vita, cioè di modi di pensare, di quadri di valori, di desideri, di timori, che sono un attraversamento trasversale dell’opera, perché la riguardano direttamente, nei suoi problemi specifici e nello stesso tempo incrociano le relazioni e le strutture della vita sociale e della vita materiale.

Se questa è una costante che riporta al presente dell’opera la lunga e, per certi versi, misteriosa genealogia del passato, alcuni artisti, come Vincenzo Rusciano, ne hanno fatto un nucleo fondante, una scelta tematica deliberata che rifonde le memorie e le tracce del passato in una poetica fortemente evocativa e percorsa da una tensione problematica rispetto all’oggi.

Rusciano ha lavorato nella chiesa di Sant’Aniello a Caponapoli, nel quadro del progetto di recupero di questo importante bene, che aveva vissuto drammatici momenti di abbandono e di degrado. È nato, in quegli spazi, il progetto Sponda del 2014, una mostra in cui le installazioni si collocavano in un rapporto di immersione e di emersione, retrocedendo fino quasi a mimetizzarsi o spiccando, per contrasto, con gli ambienti.

Nel 2018 un gruppo di opere, raccolte nella mostra Skyline, hanno segnato un ulteriore momento di questo lavoro di ricostituzione genealogica del frammento. Sono lavori nei quali gli oggetti del lavoro concreto del restauratore e dell’artista, nella sua prassi quotidiana, si compongono con antiche sculture mutile, con brani di pavimentazioni, con tasselli di forme utilizzate per i calchi, i quali rappresentano appunto la traccia di un vuoto, la memoria di un’assenza.

Rusciano ha realmente lavorato come restauratore nel corso della sua attività, il suo rapporto con questi materiali è quindi diretto, non è uno sguardo dall’alto, distaccato, ma si avverte con evidenza che assistiamo a un serrato corpo a corpo, che entriamo anche dentro la polvere e il detrito, insomma dentro i segni del tempo e del suo rovinoso procedere. Il suo sguardo però non è di tipo nostalgico, almeno nel senso romantico che si può attribuire a questo termine, quanto piuttosto direi magico, nel senso che accoglie quanto di perduto e indecifrabile ci arriva da lontano e ci indica quanto forte e potente sia il legame di questo mondo con noi che siamo qui oggi. Ci troviamo, infatti, dentro una lunghissima storia comune che è un transito e un rispecchiamento che ci rimanda la nostra immagine. I manometri, che sono inseriti all’interno di alcune opere, sembrano registrare una pulsazione, l’eco di vite che si sono tradotte e trasformate negli oggetti e nelle forme dell’arte.

Non c’è, nel lavoro di Rusciano, la pretesa di sistematizzare in maniera definitiva questo materiale, contrassegnandolo con il sigillo di un’affermazione perentoria, l’illusione di circoscriverlo nel campo delle verità acquisite per sempre: le sintetiche strutture che racchiudono i frammenti alludono alle teche, all’idea del contenitore, ma rappresentano anche un dato di struttura aperto in un equilibrio dinamico, stabiliscono il perimetro dell’arte con i suoi smarginamenti e la sua instabilità.

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