Premessa
Negli ultimi anni l’espressione “Ripartire dalla cultura” è stata spesso impiegata per indicare il potenziale supporto che un’adeguata considerazione di beni ed attività culturali avrebbe potuto garantire a tutto il contesto sociale, aiutando un equilibrato sviluppo economico-sociale. A volte in maniera polemica contro i teorici del “con la cultura non si mangia”, altre volte per dimostrare che la forza di certi territori, gravati da problemi antichi e moderni, poteva venire anche da un elemento troppo sottovalutato, l’idea ha guadagnato consensi e raggiunto risultati.
Improvvisamente, la drammatica evenienza determinata dalla pandemia COVID 19 ha reso questo, come altri temi importanti, di fatto marginali. Eppure, anche aiutati dall’ottimismo della volontà, è necessario tentare di riprendere, adesso, quelle riflessioni, e proprio a partire dai danni specifici che alla cultura la pandemia sta procurando, sviluppare idee che saranno forse utili quando questa tremenda congiuntura sarà superata.


Essere preparati
Una dei concetti fondamentali che, non solo come italiani, stiamo apprendendo è quello della “preparedness”. Si tratta di un termine proveniente dalla letteratura medica che sta ad indicare il livello di consapevolezza, concettuale, organizzativo e tecnologico, con cui si possono affrontare eventi drammatici e globali come l’attuale pandemia. In particolare il rapporto recentemente elaborato da tre accademici dei Lincei come M. Cecconi, G. Forni, A.Mantovani, ne evidenzia la centralità e sottolinea come la capacità di resilienza ad un evento come il COVID 19, e ad altri che potrebbero investirci in un prossimo futuro, sia strettamente determinata dal grado di preparazione. (1)
In queste settimane appare evidente come tutta la nostra vita sociale sia stata colpita in più gangli vitali e come molte forme di organizzazione siano state rallentate o bloccate. Il mondo del lavoro e delle attività formative ed educative sta tentando di ripensarsi radicalmente con risultati diversi. In alcuni casi stiamo registrando esperienze importanti in settori privati di servizi avanzati, in enti e centri di ricerca, nelle nostre università. Per converso Domenico De Masi ha opportunamente ricordato che nei novanta alcuni settori fossero già pronti a partire con esperienze di lavoro a distanza ma, a distanza di anni, esperienze e risultati siano limitatissimi. (2) Ed in effetti fortissime criticità si registrano in molti ambiti, pubblici e privati, in cui la difficoltà di lavorare con modalità innovative deriva da una congerie di problemi: organizzativi, tecnologici, emozionali. I contesti in cui si sviluppano le attività culturali non sono certo indenni da tali criticità. Cerchiamo di osservarle più da vicino.


Ripensare il lavoro nelle organizzazioni e tra le persone
L’impatto drammatico del COVID 19 sulle organizzazioni che gestiscono i beni culturali è evidente: sia che si parli della lunga filiera che fa capo al Ministero per i Beni Ambientali e Culturali, sia che ci riferisca alle numerosissime realtà amministrate da istituzioni locali, sia, non dimentichiamolo, che si tratti di realtà gestite da privati, il COVID 19 mette in estrema difficoltà realtà che, per loro natura, devono essere visibili e visitabili. Si aggiunga che nel Paese considerato, a ragione, il più ricco di beni di tale natura le limitazioni e le impossibilità non toccano solo gli istituti come i musei, le biblioteche, gli archivi o le aree archeologiche ma includono naturalmente interi segmenti urbani. Questo drammatico impatto blocca il processo di valorizzazione che, con maggiore enfasi, era stato avviato in questi ultimi anni quando, anche sulla base di un’acquisita centralità da parte dell’Italia nelle rotte del turismo internazionale, il nostro Paese stava vedendo, in tutte le sue aree geografiche, un aumento esponenziale di turisti, ospiti e visitatori. Questo processo era, a nostro avviso, contraddistinto da forti criticità: la dimensione “economicistica” della risorsa cultura, bene esemplificata dalla politica dei c.d. grandi attrattori, portava a concentrare risorse ed impegni su alcune aree allargando, anche in questo caso, la forbice con l’intero patrimonio culturale del Paese. Queste considerazioni sono però sorpassate in presenza di un nemico implacabile che colpisce, innanzitutto, le forme della socialità. Le politiche di valorizzazione dei beni culturali devono diventare, in modo serio, sostenibili. Attraverso uno sforzo intellettuale che deve coinvolgere la dimensione organizzativa degli istituti, quella tecnologica e quella dell’adeguata conoscenza dei fruitori reali e potenziali del bene culturale, occorre riuscire ad individuare modelli nuovi, “ibridi” di valorizzazione dei beni culturali che ne consentano la fruizione nelle condizioni di maggiore sicurezza possibile. Non sarà facile e per questo occorre cominciare a lavorare da subito.
Accanto a questa problematica occorre almeno toccare quella delle persone in carne ed ossa, donne ed uomini, che lavorano nel comparto cultura italiano. E qui ci si scontra subito con una specificità legittima figlia degli ultimi decenni: lo scarso, in molti casi inesistente turn over che ha caratterizzato questi anni evidenzia la doppia criticità del personale specializzato ampiamente sottodimensionato rispetto alle necessità da un lato; dall’altro della presenza di un gran numero di lavoratori esterni agli istituti che, in una logica economicistica della gestione dei beni culturali, alimenta quell’ampia area del lavoro precario di questo Paese e che ne rappresenta una delle maggiori difficoltà. Proprio perché crediamo nella centralità dei lavoratori dei beni culturali, i cui compiti richiedono un alto grado di professionalizzazione e, in molti casi, una vera e propria vocazione al lavoro svolto, siamo certi che essi potrebbero essere parte attiva in quel processo di ripensamento del lavoro nel settore che abbiamo descritto sopra come necessario. Devono però avere le condizioni di partenza minime per farlo e, fuor di metafora, la politica degli istituti per poter puntare davvero su di essi deve abbandonare gli atteggiamenti “economicistici” e da “incubo dl contabile” che il vecchio Keynes stigmatizzava nel liberismo ottocentesco e che hanno uniformato la gestione del bene culturale ad un banale conto economico. (3)


A mò di conclusione
Questo articolo tocca solo alcuni aspetti del mondo delle attività culturali anche se essi non sono certamente di secondaria importanza. Riteniamo che proprio dalle molte limitazioni che la situazione ci impone si debba cominciare ad operare per essere pronti “dopo”. Perché un dopo ci sarà e, come sempre, solo la battaglia delle idee ci consentirà di sviluppare nuovi e più avanzati paradigmi, rifiutando gli errori e le miopie del passato ma ponendosi anche concreti obiettivi. Da questo punto di vista se la cultura ed i suoi operatori sapranno farsi portatori di “equilibri più avanzati” allora potremo davvero ricominciare ad usare la nostra espressione “ripartire dalla cultura”. Buona fortuna a tutti noi!

[1] Accademia Nazionale dei Lincei, Commisione Salute, Rapporto COVID 19,a cura di   Maurizio Cecconi, Guido Forni, Alberto Mantovani <https://www.lincei.it/sites/default/files/documenti/Commissioni/COVID 19_An%20_executive_report_IT_20200401.pdf>

[2]Cfr. Telelavoro. Intervista al sociologo Domenico De Masi, “Donnainaffari.it”,  16.04.2020, <http://www.donnainaffari.it/2020/04/telelavoro-intervista-al-sociologo-de-masi/>

[3] La citazione completa è la seguente: “Nel secolo XIX si sviluppò fino a un livello stravagante il criterio che, per brevità, possiamo chiamare del tornaconto finanziario, come test per valutare l’opportunità di intraprendere un’iniziativa sia privata che pubblica. Ogni manifestazione vitale fu trasformata in una sorta di parodia dell’incubo del contabile. Invece di utilizzare l’immenso incremento delle risorse materiali e tecniche per costruire la città delle meraviglie, si crearono i bassifondi; e si pensò che fosse giusto e ragionevole farlo perché questi, secondo il criterio dell’impresa privata, “fruttavano”, mentre la città delle meraviglie sarebbe stata, si pensava, un atto di follia che avrebbe, nell’imbecille linguaggio di stile finanziario, ipotecato il futuro”.   John. M. Keynes.  Autosufficienza nazionale (1933),  ora in La fine dellaissez faire ed altri scritti economico-politici, introduzione di Giorgio Lunghini. Torino: Bollati Boringhieri, 1991, p. 95.

Ferruccio Diozzi è un quadro del CIRA ed ha una lunga esperienza nella elaborazione di politiche culturali.

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2 commenti

  1. Ritengo questo articolo una buona base per 1)ricominciare/continuare ad elaborare analisi accurate sul presente la cui temporalità è ancora indefinita,
    2) per “attrezzarci al meglio” per decifrare realisticamente i danni
    3) per essere più preparati a ricostruire il futuro, consapevoli che possono essere fatti errori (spero transitori) ma che è necessario alimentari confronti tra esperti e giovani impegnati in “iniziative dal basso” e tra rappresentanti istituzionali
    4) Costruire reti in una cornice solida di turismo sostenibile ed economia etica.
    5) Viva la Cultura, sempre!

    1. grazie per l’apprezzamento! un momento estremamente difficile in cui, più di sempre, occorre comprendere e criticare (in senso classico) la realtà.

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